La scelta del nome è un momento fondamentale nell’attesa di un figlio. Può essere qualcosa di rapido e istantaneo, come se fosse sempre stato scritto, ma anche un processo lungo e difficile che impiega tutti i nove mesi, sommandosi alle altre tensioni dell’attesa.
C’è chi decide di aspettare la nascita, fiduciosi che tenendo in braccio il pargoletto, il nome si paleserà come un’apparizione divina.
Chi invece è legato a logiche familiari, costretto a doversi ispirare a nonni, zii e genitori, creando alle volte storpiature complicate che ricadranno sulle spalle del bambino.
Altri ancora si affidano ai libri, ai siti e alla fortuna, sfogliando pagine e pagine di significati di nomi, desiderosi di donare una particolare caratteristica o atteggiamento, perdendosi in nomi arcaici andati completamente in disuso, affidandosi, dopo giorni di lettura, al classico “Dimmi stop”, facendo scorrere il pollice sul dorso delle pagine e sperando che la fortuna gli doni il nome giusto. Pratica ancor più rischiosa è la decisione di dare al bambino, il nome del santo che ricorrerà il giorno della nascita: difficilmente dà risultati accettabili, costringendo a dover venir meno alla parola data. Insomma, la scelta del nome è una pratica tutta personale. Per me e Marta è stata una somma di tutto questo.
Era il quarto mese e noi avevamo speso gran parte di quel tempo a discutere sul nome che avremmo dato a nostra figlia. Questo perché eravamo convinti che sarebbe stata una femmina. Non per motivi particolari. Era una sensazione che portavamo dentro, spinti soprattutto dal desiderio di entrambi di avere una bambina. A me piaceva particolarmente Alice, con rimandi a persone che conoscevo con quel nome ma anche per la protagonista del libro di Lewis Carroll. Speravo le sarebbe stato ben augurante per una vita piena di avventure, magia e fantasia. A Marta però non piaceva, sopratutto a causa del mio accento romano che aspira leggermente la C, trasformando “Alice” in “Alisce”. A lei piacevano nomi come Rita e Matilde ma a me non suonavano bene. Io ero diviso tra il particolare rispetto che provavo per lei in quanto donna incinta e futura mamma, che mi spingeva a darle una sorta di precedenza, e il mio desiderio di donare un nome che mi desse sensazioni positive. Dopotutto lei stai sopportando il peso maggiore della gravidanza ma allo stesso tempo io ero il papà. La discussione continuava, interminabile, con nomi lanciati in continuazione nella speranza che almeno uno colpisse l’altro, senza però riuscire a raggiungere una decisione.
Poi è arrivata l’ecografia morfologica e lì tutto è cambiato. Ci hanno detto che sarebbe stato un maschio, lasciandoci completamente stupefatti. Io più di Marta, che in qualche modo già lo sentiva. Era un sorta di segreto che si era portata dentro durante le nostre discussioni sul nome. Una piccola parte di lei continuava a sussurrarle che era inutile scegliere il nome della femmina, perché sarebbe stato un maschio. C’è chi obietterebbe che in fondo si tratta di un 50% di possibilità di indovinare. A me piace vedere la bellissima intesa e il grande collegamento che c’è tra una madre e il proprio bambino già durante la gravidanza.
Dopo aver avuto la notizia del sesso. Guardai Marta e le dissi:
“Non penserai di passare i restanti 5 mesi a discutere sul nome del maschio, vero? Prendiamoci una pausa”
Così decidemmo di non parlare del nome per un po’, impegnati a comunicare la notizia a parenti e amici. Qualche giorno dopo, Marta venne da me e, a sorpresa mi disse:
“Chiamiamolo Giacomo!”
Giacomo. Non avevamo mai pensato a quel nome. Giacomo è stato un fulmine a ciel sereno.
“Perché Giacomo?” le chiesi.
“Beh, quando abbiamo saputo che saremmo diventati genitori, siamo andati in Spagna e abbiamo fatto una preghiera a Santiago. Visto che sta andando tutto bene, potremmo ringraziarlo chiamandolo Giacomo”.
L’idea non mi dispiaceva. Era proprio un bel nome e più lo ripetevo, più mi piaceva. Abbracciai Marta. Avevamo un nome e non c’era stato bisogno neanche di discutere! Corsi subito a comunicarlo a più gente possibile. Conoscendo mia moglie, avrebbe potuto cambiare idea da un momento all’altro. Pensandoci poi con calma, mi tornò alla mente un bellissimo ricordo: la mia bisnonna con cui ero cresciuto, che si chiamava Giacomina. Il nome sarebbe stato quello, senza alcun dubbio.
In fondo la scelta del nome è una strada da percorrere insieme. Può essere dura e complicata o breve e rilassante, ma rimane un modo per ri-conoscersi all’interno di una coppia. La proposta di un nome è fatta di ricordi ed esperienze e sarebbe un’occasione sprecata non domandare perché si è così ostili a un nome piuttosto che favorevoli a un’altro. Diventa un modo per scoprire lati nascosti, persone dimenticate e momenti vissuti. Sono discorsi che aprono una piccola porta sull’altro, fatta di particolari che arricchiscono la vita insieme. La scelta di un nome diventa l’occasione di incontrarsi e scoprirsi di nuovo.
E voi unigenitori, come avete fatto a scegliere il nome?