Kari Davis è una donna che ha dovuto affrontare una prova durissima, quella che nessuna mamma vorrebbe affrontare e a cui vanno incontro 26 mila famiglie americane ogni anno: l’esperienza di una bimbo nata morta.
Nel marzo del 2013 la notizia le è arrivata come un fulmine a ciel sereno, 3 giorni prima della data presunta del parto e, per tentare di elaborare lo choc, tornata a casa ha voluto fissare le emozioni provate, per non dimenticarle, scrivendo una lettera intitolata: The Hardest Part (la parte più difficile).
“Anche se ogni genitore di un piccolo nato morto ha la sua esperienza, io credo che noi tutti proviamo lo stesso spettro di emozioni. Nel condividere questa mia personale poesia spero di aumentare l’attenzione e la comprensione nei confronti di questa realtà” ha confessato Kari all’Huffington Post.
Ecco il testo tradotto.
“Un sacco di cose circa avere mia figlia Harper sono state difficili.
Per esempio è stato difficile attendere che il dottore entrasse nella stanza con la macchina da ultrasuoni sapendo che non mi portava buone notizie.
È stato molto difficile scoprire che era morta il giorno prima, in ufficio.
Il dottore mi ha guardato tristemente e ha detto, molto delicatamente:
“non mi piace quello che vedo, mi spiace, ma il cuore non sta battendo”.
È stato difficile vedere Marc spezzarsi, singhiozzando in una sala di ospedale. Sapendo che aveva perso sua figlia e la sua unica consanguinea.
Domandandosi come una persona possa perdere così tanto nella sua vita e rimanere comunque tanto forte.
È stato difficile uscire dalla sala degli esami, lungo il corridoio stretto, verso l’uscita… con le gambe deboli, la testa confusa.
La calda mano di Marc, la mia áncora in un mondo che era stato devastato, istantaneamente, e caoticamente messo sotto sopra, che mi teneva stretta.
Il personale dell’ufficio goffamente silenzioso, che ci dava goffi sguardi di empatia mentre passavamo come questuanti.
Non riuscivo a ricordare dove avevo parcheggiato, figurarsi come tornare a casa.
È stato difficile camminare per la casa, su per le scale, nella silenziosa solitudine della sua camera. Sedersi sulla sedia a dondolo, dondolando, dondolando, dondolando.
Carezzando ancora il mio stomaco.
Lacrime brucianti di rabbia che scendevano lungo il mio volto.
Guardare a una stanza arredata per bambini a cui avevo gioiosamente aggiunto gli ultimi tocchi solo il giorno prima…
Sapendo che sarebbe rimasta vuota, silenziosa.
È stato difficile decidere cosa fare dopo.
Decidere di essere aperta e onesta è stata la scelta migliore.
Inviare un messaggio di testo di massa per far sapere a tutti quello che era successo.
Sentirti come un fallimento, domandandoti cosa hai fatto per meritarti questo.
È stato duro, no è stato impossibile dormire in quella lunga notte sapendo che portavo mia figlia morta insieme a me,
che sarei dovuta andare in ospedale di lì a qualche ora per partorirla, o almeno quel che sarebbe stato il risultato.
Aspetta, forse l’ho sentita muoversi!!
Volendo così tanto che fosse vero.Aggrappandomi a un sussurro fantasma di speranza che, in qualche modo, era sbagliato, che era una sorta di errore.
Rimanere stesa accanto a Marc, tenendo disperatamente le sua mani. Piangere sommessamente e silenziosamente sussurrando il suo nome più di una volta.
È stato difficile scriverle una lettera in quella notte senza fine, su tutti i sogni e progetti che avevo per lei.
Lo shopping, insegnarle le cose, che speravo che un giorno saremmo state migliori amiche.
Tutte le cose che non avremo mai l’occasione di essere.
È stato difficile alzarsi alle 5 del mattino, il giorno dopo.
Rimuovere alcuni dei vestiti che avevo preparato per lei dalla valigia
dal momento che non ne avrei avuto bisogno.
Ho fatto la doccia come un robot e mi sono vestita, ma la parte più orrenda, per me, è risultata essere il lungo viaggio verso l’ospedale.
L’agonia dell’attesa,
la terribile anticipazione di dare alla luce un bimbo che non avrebbe mai emesso il primo respiro
che non avremmo mai portato a casa.
Salendo sul sedile posteriore dell’auto con mio marito, aggrappandoci l’uno all’altro come se ne fosse andato della nostra vita,
mia madre come autista.
Le case scure che passano lentamente, il sedile freddo dell’auto pressato nella mia schiena, il vuoto dentro di me.
Questo è stato il viaggio più lungo di tutta la mia vita, ogni cosa andava al rallentatore.
Era una strada che avevo fatto ogni giorno, per anni, normalmente in 5 minuti, ma in quel momento si estendeva in un’agonia straziante.
Per me è stata la parte più dura“.
Dopo la tragedia Kari è entrata in un gruppo Healthy Birth Day (giorno di nascita in salute) che aiuta le mamme a prevenire la mortalità perinatale mediante adeguata formazione e fornendo supporto. Ad ottobre dello stesso anno è divenuta “ambasciatrice” del progetto chiamato “Count the Kicks!” (conta i calci!) che insegna come monitorare i movimenti del bambino giorno per giorno nel 3° trimestre di gravidanza (esiste anche una App gratuita sia per Apple che per Android!), e il cui obiettivo è appunto quello di ridurre la mortalità infantile. Mortalità che in Iowa, dall’introduzione del progetto nel 2009, è diminuita del 26%!
A settembre di quest‘anno Kari ha dato alla luce il piccolo Colton, ma il ricordo di Harper è sempre vivo nei suoi pensieri e lei continuerà a tenerne viva la memoria col suo operato. “Anche se la nostra famiglia non sarà mai completa senza Harper, sono riconoscente ogni giorno per il dono di averla avuta. Tutte le volte che spiego a qualcuno come contare i “calci” del bambino, lo faccio in onore di lei. Spero sia orgogliosa della sua mamma.” ha dichiarato Kari.
Unimamme, come sottolinea Kari nella sua straziante lettera, è molto importante parlare della morte perinatale, ve l’abbiano ricordato anche noi.
Voi cosa ne pensate del modo in cui questa donna ha deciso di affrontare il suo lutto? E del metodo che si è impegnata a diffondere? Guardate il video che spiega come sia semplice farlo e poi diteci che ne pensate.
Fonte: Huffington Post.com