Parlare e scrivere di aborto non è cosa semplice. Chiunque di noi mamme, e non, lo abbia vissuto sa benissimo a cosa mi riferisco.
Anche nel fortunato caso in cui tale esperienza non ci abbia toccate personalmente, c’è sempre una amica molto cara, se non una sorella, che ha affrontato quel dolore.
Perché di dolore si tratta, sia nel caso in cui la perdita vada sotto l’etichetta di “aborto spontaneo”, sia se sia invece catalogabile come “aborto terapeutico”.
Le parole diventano piccole per descrivere la sensazione di vuoto e di dolore. Se le guardi negli occhi, quelle mamme-senza, esprimono tutto il loro infinito tormento. Lo esprimono quando guardano i loro bambini, nel caso in cui ne abbiano già uno, lo esprimono guardando tutti gli altri bambini che non sono i loro, che non sono “quel” bambino. Proprio “quel” bambino che vive nei pensieri, nei rimpianti e nel cuore di quella donna.
Un articolo sul Fatto Quotidiano di un giovane uomo, ci ricorda però la necessità di trovarle quelle parole.
L’occasione è un romanzo, in cui è descritta la storia di una giovane coppia, che viene a conoscenza di una grave malattia del proprio bambino oltre i tempi stabiliti per legge dell’aborto terapeutico.
Pietro De Angelis, classe 1973, parlando di questo libro da poco uscito e già ristampato: “Nessuno sa di noi”, di Simona Sparco, ci ricorda, almeno, due elementi importanti intorno a questo discorso.
Il vuoto che esiste sul tema dell’aborto.
Vuoto culturale in quanto tema, da sempre, tabù.
Vuoto esistenziale che si ripercuote sulla solitudine di tanti genitori “costretti” al silenzio, in una società che spesso giudica e basta. Giudica e prende distanze da chi già è lasciato solo.
Secondo fatto, che ci riguarda molto: è necessario che le donne abbiano il coraggio di parlare. Coraggio, malgrado i preconcetti.
Coraggio, malgrado le parole siano comunque tanto piccole per raccontare le vere esperienze.
E’ necessario trovare le parole per consolare le donne che hanno sofferto, per raccontare e superare i propri dolori, per far sì che nessun altro decida del nostro silenzio.
“Perché di certi argomenti hanno forse il diritto di parlare solo i testimoni e i sopravvissuti. Tutti gli altri dovrebbero fare un passo indietro, e ascoltare. Tuttavia, proprio le donne sono troppo spesso vittime – e, a volte, involontarie complici – del silenzio omertoso della vergogna e del senso di colpa; interiorizzando così un pregiudizio sociale che le vuole non parte lesa bensì ree di un gesto mai giustificabile e sempre sbagliato.”
In quanto mamme e donne, ognuna nel suo personalissimo modo, chiediamoci : “Chi ha davvero il diritto di usare le parole mai e sempre di fronte al dolore di una madre?”
Forse proprio nessuno, se non altre donne disposte insieme a trovarle finalmente quelle parole.
Ci è richiesto un atto di coraggio.
Certamente non sarà certo un atto di coraggio in più a spaventarci, o no?
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