Una volta mi è capitato di assistere ad una partita di basket. Il tifo era particolarmente acceso: si trattava dell’accesso alle finali di un campionato importante. Ad un certo punto, dopo un canestro decisivo, uno dei tifosi si è alzato dagli spalti e ha fatto il gesto dell’ombrello a quelli avversari. Scene di ordinaria amministrazione (che non dovrebbero poi neanche tanto esserlo in realtà) se non fosse che i giocatori in campo avevano 12 anni e che sugli spalti a “sostenerli” ci fossero i loro genitori.
Chissà perché quando i figli incominciano a fare sport, molti genitori impazziscono. Pensano di avere in casa il futuro Michael Jordan o il futuro Ronaldo o Messi. Credono che solo il loro pargolo sia il migliore e se l’allenatore non lo fa giocare lo aspettano a fine partita per dirgliene quattro. Il problema è che poi l’atteggiamento dei genitori crea un circolo vizioso: se un bambino non è un campione, gli si fa credere di esserlo, così se non viene convocato per la partita o si allena male è colpa degli altri che non gli permettono di esprimersi. Se invece il bambino è davvero talentuoso, l’atteggiamento del genitore rischia di fargli perdere la voglia di praticare.
Lo sport è infatti momento, ricordiamocelo, soprattutto di gioco e di libertà. Ma è anche un modo per imparare a stare insieme agli altri rispettando delle regole. Se si perde, si guarda avanti, come nella vita.
Come si può pretendere che dei bambini o ragazzini siano educati e disciplinati, che rispettino le decisioni di un arbitro se per primi i loro genitori sono pronti a sbranare il giudice di gara quando fischia magari un fallo a favore degli avversari?
Non è un fenomeno nuovo: mio marito mi ha raccontato che quando giocava a basket, un genitore avversario gli aveva persino fatto il dito medio. La mia domanda è: non si possono lasciare un po’ in pace, questi benedetti figli? Già sono tartassati a scuola, dove c’è una fortissima competizione fin dalle elementari. Non è necessario che siano i migliori sempre. E’ necessario che siano sereni. Che vivano la loro età. Che capiscano che un risultato positivo (un miglioramento, un saggio ben riuscito o la partita vinta) è frutto di sforzi e fatica. Che sono loro stessi a dover lavorare per fare sempre un passo in là. Prima lo imparano e prima saranno degli adulti responsabili, capaci di prendersi le proprie responsabilità, sia con le persone sia sul lavoro.
E voi? Vi è mai capitato di assistere a qualche episodio da raccontare durante l’attività sportiva dei vostri figli?