Miriam Zoll ha deciso di sfidare le statistiche e provare a concepire un figlio superati i 40 anni, dopo aver rimandato e rimandato ancora. Non riuscendo a diventare madre con metodi naturali, la donna ha deciso di affidarsi alle innovative tecniche di fecondazione assistita provandole tutte, anche quella, estrema, che prevede che il seme oppure l’ovulo provengano da un soggetto esterno alla coppia, detta fecondazione eterologa.
Tutti i tentativi della donna, sperimentati nel corso di anni traumatici, dolorosi e dispendiosi, sono purtroppo falliti ma hanno reso Miriam una vera e propria esperta del mondo della procreazione artificiale. Un mondo del quale si è definita ‘dipendente, drogata‘, nel racconto che ha deciso di pubblicare nel libro intitolato ‘Cracked open‘ (spaccata in due ndr).
Nel suo libro Zoll racconta come fosse ossessionata dalla volontà di avere un bambino, come il marketing delle cliniche della fertilità porti a creare nelle donne ‘l’illusione che i servizi medici saranno gradevoli e tollerabili. Ogni paziente ha una diversa soglia del dolore e nella mia esperienza i trattamenti sono stati invasivi, hanno trasformato la mia vita, fisicamente, emotivamente, sessualmente e spiritualmente. ‘
In un’intervista rilasciata a Tempi.it la Zoll punta inoltre il dito sui dati fuorvianti rilasciati dall‘American Society for Reproductive Medicine (Asrm), che affermano una percentuale di successo del 60%: ‘I dati citati dall’Asrm sono tratti da uno studio pubblicato nel 2012 sul New England Journal of Medicine…’ ‘…lo studio conferma un tasso di fallimento dei cicli del 70 per cento: il 60 per cento è lo scenario migliore di riuscita su 247 mila donne che non si sono sottoposte a più di sette cicli successivi. In realtà molte donne che scelgono la fecondazione in vitro non riescono neppure a raggiungere la fase della fecondazione vera e propria. Inoltre, un bambino nato vivo non significa necessariamente che le coppie porteranno a casa un figlio sano…’
Insomma, uno scenario di vendita di ‘false illusioni‘ quello dipinto dalla donna, che nel periodo in cui si è sottoposta ai trattamenti si è definita come una vera e propria ‘drogata della fecondazione’: Questa ossessione e dipendenza dalla speranza offerta dalla scienza cresceva sempre di più davanti ad ogni tentativo fallito. Ho lottato praticamente ogni giorno con la mia ossessione crescente…’ ‘… Mi interrogavo se essere madri non significa invece amare un bambino con tutto il mio cuore e tutta la mia anima, come amo il figlio che poi ho adottato e che ora ha quattro anni’…
..’Ero arrabbiata con me stessa per aver creduto a tutto quello che avevo letto e sentito sul fatto che rimandare la maternità fosse una pratica innocua per le donne…’ .’…Ero arrabbiata con me stessa per aver privato mio marito della possibilità di fare esperienza della paternità…”…L’esperienza della mia infertilità è stata la più umiliante della mia vita e sono piombata nella depressione, finché sfinita mi arresi.’, leggiamo ancora nell’intervista.
La storia fortunatamente ha un lieto fine, Miriam ha adottato un bambino per il quale ha provato subito ‘un’esplosione di amore e di istinto protettivo emersa dal profondo del mio essere…”… si diventa madri per amare, ascoltare, proteggere, guidare, insegnare…‘ ‘..la maternità non è una questione di connessioni genetiche o di sangue.’
Un bello spunto di riflessione, non trovate?
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