In Sudan una grande ingiustizia nei confronti di una donna è balzata agli occhi del mondo intero: la ventisettenne Meriam Yehya Ibrahim Ishag è stata condannata a morte per il reato di apostasia.
La donna, madre di un bimbo di venti mesi rinchiuso con lei in prigione, è incinta di un altro figlio, ma nonostante la sua gravidanza sia estremamente difficile le autorità si rifiutano di trasferirla in un ospedale privato accampando la scusa delle misure di sicurezza.
La donna è cristiana e si è sposata con un uomo della sua stessa fede, il padre di Meriam però è musulmano e quindi, secondo la legge della Sharia, anche lei dovrebbe esserlo.
Davanti al rifiuto di Meriam di abiurare la propria fede, le autorità sudanesi l’hanno dunque condannata all’impiccagione. Nemmeno il marito Daniel Wani, che è su una sedia a rotelle, può esserle di conforto, perché non gli è consentito di vedere la moglie.
In suo favore si è mobilitata Amnesty International e il suo caso ha ricevuto l’attenzione dei media internazionali. Gli ultimi aggiornamenti, riportati da Antonella Napoli, presidente di Italia for Darfur, indicano che Meriam avrà un nuovo processo in cui sarà esclusa la pena di morte.
Tutti sperano che la Corte Suprema si pronunci a favore di Meriam, ma le tensioni nei confronti di questa vicenda sono ancora molto forti.
La storia di Meriam non è sicuramente una di quelle a cui si possa rimanere indifferenti e infatti Amnesty ci invita a firmare un appello in suo favore e a far sentire la nostra voce per difendere una persona vittima del fanatismo.
Per sostenere la sua causa è stato creato anche l’hashtag su Twitter: #meriamdevevivere.
Unimamme, purtroppo, per l’ennesima volta, una donna, una mamma, viene oppressa e privata di libertà e diritti fondamentali. Facciamo qualcosa!
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