Reyhaneh Jabbari è stata uccisa. La condanna a morte, arrivata nel 2009, è stata eseguita a distanza di 5 anni dalla decisione inflitta dal tribunale. Era stata arrestata nel 2007, quando di anni ne aveva solo 19. L’accusa: l’omicidio di Morteza Abdolali Sarbandi, ex dipendente dell’Intelligence di Teheran, l’uomo che ha tentato di stuprarla.
Amnesty International ha denunciato irregolarità nel processo, e il tribunale non ha tenuto conto che la sua reazione nei confronti dell’uomo, le sue coltellate erano state la sua difesa al tentativo di stupro subito dall’uomo.
Questo il racconto di quella notte, dalla lettera testamento che ha lasciato alla madre, Sholeh Pakravan, parole di riscatto, parole di una donna che non vuole piegarsi al destino e alla cultura che la incastra, che la connota vittima, “essere inutile” sotto i piaceri degli impulsi dei bruti:
“Cara Sholeh,
oggi sono venuta a sapere che è venuto per me il momento di affrontare la Qisas (ndt una sorta di legge del taglione vigente nel sistema legale iraniano). Mi fa male scoprire che non sei stata tu ad informarmi che è stata già scritta l’ultima pagina del libro della mia vita. Non credi che avrei dovuto saperlo? Sai bene quanta vergogna provi nel saperti intristita. Perché non mi hai lasciato cogliere l’occasione per baciare la tua mano e quella di papà?Il mondo mi ha voluto per 19 anni. Quella terribile notte sono io che sarei dovuta morire. Il mio corpo sarebbe stato gettato in qualche vicolo dimenticato della città, e dopo alcuni giorni la polizia ti avrebbe condotto nell’ufficio del coroner per identificarlo, là ti avrebbero anche informato che ero stata violentata. L’assassino non sarebbe mai stato scoperto dato che noi non siamo né ricchi né potenti come loro. In questo modo tu avresti continuato a vivere soffrendo e svergognata, alcuni anni dopo saresti morta consumata da tanto soffrire e sarebbe finita lì.
Invece, con quel colpo maledetto la storia è cambiata. Il mio corpo non è stato scaricato in nessun luogo, se non nella tomba della prigione Evin e dei suoi corridoi solitari, e ora nella prigione tomba di Shahr-e Ray. Ma tu devi accettare il fato e non devi lamentarti. Sai bene che la morte non é la fine della vita.
Mi hai insegnato che si viene in questo mondo per fare esperienza e imparare lezioni e che ogni rinascita porta seco una nuova responsabilità sulle nostre spalle. Io ho imparato che a volte occorre lottare. Ricordo bene quando mi raccontasti che l’autista protestò con l’uomo che mi stava frustando, ma il fustigatore lo colpì in testa e sul viso portandolo alla morte. Tu però mi hai fatto notare che per creare valore occorre perseverare comunque, anche se uno di noi muore.
Ci hai insegnato che nell’andare a scuola ci dovevamo comportare da signore anche in mezzo alle baruffe e alle lamentele. Ti ricordi quanto ci tenevi a che ci comportassimo bene? Ebbene, il tuo insegnamento non era giusto. Quando è accaduto quell’incidente, i tuoi consigli non mi hanno aiutato. Anche il solo presentarmi in un tribunale mi ha fatto apparire come un’assassina a sangue freddo e una criminale senza scrupoli. Non ho pianto. Non ho chiesto perdono. Non ho pianto e ho rimesso tutta la mia fiducia nella legge.
Mi hanno così accusata di essere insensibile davanti ad un crimine. Io, io che non uccidevo neppure le mosche, io che scacciavo gli scarafaggi prendendoli per le antenne. Ora sono diventata un pericoloso assassino e il modo di avvicinarmi a quegli insetti è stato interpretato come chiaro segno di una latente personalità maschile tenuta ben nascosta. Il giudice non si è neppure preso la briga di notare che al tempo del fatto avevo unghie lunghe e ben curate.
Che tempra ottimista colui che si aspettava giustizia da quei giudici! Non si sono mai posti il problema che le mie mani non sono piene di calli come le mani delle sportive, delle donne che si dedicano alla boxe. E questo Paese – l’amore verso il quale tu hai instillato in me – non mi ha mai voluto, non mi ha mai difeso quando, sotto le accuse degli aguzzini, piangevo e ascoltavo le parole più scurrili. In compenso, quando ho infine rasato l’ultimo segno di bellezza da me, tagliandomi i capelli, sono stata premiata: 11 giorni di isolamento.
Cara Sholeh, non piangere per ciò che ti vado raccontando. Il primo giorno in cui nella stazione di polizia un vecchio agente scapolo mi ha offeso a causa delle mie unghie, ho capito che la bellezza non è cosa per questo tempo. La bellezza degli sguardi, la bellezza dei pensieri e dei desideri, una bella scrittura, la bellezza degli occhi e di visione, finanche la bellezza di una bella voce.
Cara madre mia, il mio modo di pensare è cambiato ma tu non ne sei responsabile. Le mie parole somigliano ad un fiume in piena e così le ho date tutte a qualcuno che, dopo che sarò giustiziata in tua assenza e senza che tu lo sappia, te le consegnerà. Ti ho lasciato tante lettere in eredità.
Tuttavia, prima di morire voglio qualcosa da te; voglio che tu stia con me e con le mie ragioni con tutta la tua forza e in ogni maniera possibile. In verità questo è tutto ciò che voglio da questo mondo, da questo Paese, da te. So che necessiti di tempo per farlo.
Di conseguenza, ti farò conoscere parte del mio testamento molto presto. Non piangere e ascolta. Voglio che ti rechi al Tribunale e metta i giudici al corrente della mia richiesta. Non posso infatti scrivere una simile lettera dalla prigione e ottenere la firma del direttore; ne deriva che una volta ancora tu dovrai soffrire per me. È l’unica cosa che sebbene tu implori non mi preoccuperebbe anche se ti ho pregato più volte di non chiedere che io venga salvata dall’esecuzione.
Mia dolcissima madre, cara Sholeh, l’unica che mi è più cara della mia stessa vita, non voglio marcire nella terra, non voglio che i miei occhi e il mio cuore diventino polvere. Implora che venga fatto in modo che subito dopo la mia impiccagione il mio cuore, i reni, gli occhi e qualsiasi parte del mio corpo che possa essere trapiantata sia presa e data in dono a qualcuno che ne ha bisogno. Non voglio che chi li riceve sappia di me, mi compri fiori o anche che preghi per me.
Ti sto dicendo dal profondo del mio cuore che non voglio avere una tomba dove tu possa venire a piangere e a soffrire. Non voglio che ti metta a lutto per me. Fai del tuo meglio per dimenticare questi miei giorni difficili. Lascia che il vento mi porti via.
Il mondo non ci ha amate. Non voleva il mio fato. E allora mi arrendo e abbraccio la morte. Alla corte di Dio accuserò gli ispettori, accuserò l’ispettore Shamlou, accuserò il giudice e accuserò i giudici della Suprema Corte che mi hanno percosso quando ero sveglia e non hanno smesso di torturarmi.
Alla corte del Creatore accuserò il dottor Farvandi, accuserò Qassem Shabani e tutti gli ignoranti che con le loro bugie mi hanno infamato e hanno calpestato i miei diritti e se ne sono fregati del fatto che a volte ciò che appare vero è lungi dall’esserlo.
Cara dolcissima Sholeh, nell’altro mondo saremo noi gli accusatori e altri gli accusati. Attendiamo di vedere ciò che Dio vuole. Io volevo semplicemente abbracciarti fino all’ultimo giorno della mia vita. Ti amo.“
La sua storia ha davvero mobilitato il mondo. Innumerevoli gli appelli per salvarle la vita, giunti da ogni parte del globo, ma che a nulla sono valsi; a Teheran, in quello stesso carcere in cui era stata rinchiusa le è appena stata tolta la vita per aver ucciso l’uomo che ha tentato di stuprarla. L’unica cosa che le avrebbe salvato la vita sarebbe stato il perdono della famiglia dell’uomo. Il figlio dell’uomo però, ha dichiarato che avrebbe perdonato Rayhaneh solo se lei avesse negato il tentativo di stupro. Ma Lei non ha mai accettato questo compromesso, e lo ha sempre rifiutato. Ha sempre negato di prostrarsi a questa bugia pur sapendo che il prezzo da pagare sarebbe stato “la sua vita”.
All’esecuzione avvenuta il 25 ottobre erano presenti i genitori di Reyhaneh, ma anche il figlio di quell’uomo che Reyhaneh ha ucciso per autodifesa. Sarebbe stato proprio lui ad eseguire la condanna per impiccagione, togliendole materialmente da sotto i piedi quello sgabello che l’ha consegnata alla morte.
Sabato mattina la pagina Facebook che era stata aperta per contribuire a salvarle la vita ha comunicato al mondo l’epilogo, e la scritta “R.I.P – Riposa in pace“.
Si fa fatica a pensare che tutto questo possa ancora accadere e purtroppo è ancora più doloroso a pensare che la storia di Rayhaneh non sia l’unica. Quante di queste violenze hanno luogo senza arrivare alla cronaca, senza avere questo epilogo. Ci sono pochi modi per omaggiare la memoria di una persona che ha lottato per i suoi valori, per la sua dignità, per la sua verità. Uno di questi è quello di raccontarne la sua storia e farla rivivere nella nostra pelle, con quello stesso coraggio, quello stesso simbolo in ogni paese, ogni religione, ogni cultura.
E voi unimamme, cosa ne pensate di questa storia e del coraggio di Reyhaneh?
(Fonte:rinabrundu.com)
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