E’ stato proprio questo l’oggetto di studio di tre ricercatori dell’Isfol – Istituto per lo sviluppo della Formazione professionale dei Lavoratori. La ricerca si rivolge a tutte quelle amministrazioni pubbliche o istituzioni titolari di Programmi Operativi di Fondo Sociale Europeo che redigono gli avvisi pubblici per la cittadinanza. La proposta è quella di offrire un vademecum per le istituzioni valido per offrire un contributo alla questione dell’uso appropriato delle parole, in particolare quando riferite queste sono rivolte a persone e gruppi sociali posti ai margini e spesso bersaglio di pregiudizi e stereotipi.
Lo studio vede anche la partecipazione del Ministero del Lavoro e Politiche Sociali ed il Dipartimento per le Pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Vediamo di cosa si tratta.
La prima parte della ricerca è dedicata all’ analisi della comunicazione discriminatoria, la stereotipizzazione, l’etichettamento, l’invisibilità e l’extravisibilità, ossia tutte quelle modalità del linguaggio che consistono nel:
Ecco ad esempio alcuni termini che è meglio non usare in genere, soprattutto nella redazione di atti rivolti alla cittadinanza:
a) in tema di disabilità meglio non usare:
sarebbe meglio rivolgersi a loro con una espressione come “persone con disabilità”;
b) in fatto di provenienza evitare parole come:
Anche se in tutti i casi si rischia di attribuire comunque un’etichetta, diversi sono i motivi che avvalorano il consiglio di non utilizzare tali termini. Nel secondo caso in particolare, il suffisso “extra” ha assunto un accezione negativa che richiama direttamente l’estraneità, enfatizza l’esclusione e la diversità rispetto ad un determinato contesto, ad una nazione. Il termine “extracomunitario” non viene usato ad esempio per gli svizzeri, gli statunitensi, gli olandesi nell’accezione neutra del termine ma solo quando ci si riferisce a persone che provengono da paesi poveri.
c) infine, in merito alla diversità di genere è bene infatti evitare il ricorso al maschile inclusivo come ad esempio: “… interventi mirati a coinvolgere i disoccupati…” e preferire perifrasi come “persone disoccupate” o specificare entrambi i generi “… disoccupati e disoccupate“.
La seconda parte della ricerca, come si legge su Isfol, presenta lo strumento di supporto operativo per le amministrazioni, suggerisce le alternative linguistiche e segnala dove si può incorrere nelle principali insidie linguistiche, infine offre indicazioni, suggerimenti e proposte attraverso l’osservazione delle principali istituzioni pubbliche, internazionali e nazionali, del giornalismo, l’associazionismo e la società civile che si sono maggiormente impegnate nell’orientare il linguaggio rispetto alcuni fenomeni (sessismo, razzismo, antiziganismo, omofobia e transfobia) e hanno redatto linee guida, per citarne alcuni:
ed anche tre regioni italiane
Insomma care Unimamme, le “parole possono cambiare il mondo“, e di certo la percezione di esso. Per creare inclusione si deve comunicare attraverso parole che “praticano inclusione”. Dopo esserci soffermati sulle cicatrici causate ai bambini dal “cattivo uso delle parole”, non potevamo che accogliere e parlare di questo testo, un passo ulteriore contro la discriminazione.
Voi cosa ne pensate? C’è un termine che avete ascoltato o letto in documenti pubblici che avete trovato discriminatorio come donne e/o mamme?
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