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La causa (e la cura) della dipendenza dalla droga che non ci si aspetta!

Published by
Maria Sole Bosaia

Nonostante le innumerevoli campagne di sensibilizzazione e le iniziative riguardanti la lotta alla droga ancora milioni di persone ne fanno un uso quotidiano.

Nel pensiero comune la causa della dipendenza risiede appunto nella droga stessa. Spiegarlo, a prima vista, sembrerebbe semplice, magari, a un certo punto, tutti avranno fatto questo ragionamento, ovvero che se assumessimo per un certo periodo una sostanza oppiacea, nel momento in cui smettessimo i nostri corpi continuerebbero a bramare la sostanza a causa delle sostanze chimiche in essa contenute.

Ma così non sembrerebbe, stando a quanto racconta uno scrittore americano Johann Hari,  al ritorno dal viaggio di 30 mila miglia che ha fatto lavorando al suo libro intitolato “Chasing The Scream: The First And Last Days of the War on Drugs” (Seguendo l’urlo: il primo e l’ultimo giorno di guerra alle droghe), con lo scopo di capire meglio come avviene e se funziona la guerra alla droga.

Seguiamolo allora nel suo racconto, e vediamo cosa ha scoperto.

Le sostanze chimiche ci rendono dipendenti dalla droga? Due esperimenti a confronto

La teoria che siano le sostanze a renderci dipendenti è stata avvalorata, negli anni Ottanta, da un esperimento condotto sui topi all’interno di una campagna per la lotta alla droga:

  1. a un topo in una gabbia sono stati sottoposte 2 bottiglie d’acqua,
  2. una bottiglia conteneva solo acqua
  3. la seconda acqua con eroina o cocaina
  4. il topo finiva invariabilmente con l’essere ossessionato dall’acqua contenente droga, fino a morire

Negli anni Settanta, però  un docente di psicologia di Vancouver di nome  Bruce Alexander aveva fatto un’interessante scoperta che contrastava con quanto assunto qui sopra. Nel suo esperimento:

  1. i topi erano stati sistemati in una specie di parco con palline colorate, gallerie,
  2. tutti i topi potevano assaggiare entrambe le bottiglie d’acqua, ovvero sia quella contenente solo acqua che quella contaminata con la droga
  3. ai topi che conducevano una bella vita l’acqua con la droga non piaceva
  4. i topi tenuti isolati invece bevevano tantissima acqua drogata.

Non pienamente soddisfatto, il professore in seguito fece anche un’ulteriore prova: fece in modo che i topi diventassero “dipendenti” lasciandoli soli nella gabbia, liberi di fare uso di droga. Dopo 57 giorni, tempo necessario per creare la dipendenza, li rimise nella gabbia-parco, nella quale dopo alcuni problemi di astinenza, imparavano ben presto a fare a meno delle sostanze psicotrope e tornavano a vivere una vita normale. Incredibile!

L’America, in quel periodo, fu testimone dell’applicazione di qualcosa di simile a questo esperimento con i soldati reduci dal Vietnam. Secondo le stime il 20% dei soldati ne aveva fatto uso, ma quando tornarono in patria ben il 95% smisero grazie al fatto che erano passati da una “gabbia” terrificante a una situazione piacevole (furono pochi quelli costretti ad una riabilitazione).

Questi risultati quindi sconfessano completamente l’idea secondo cui la dipendenza dipenda dagli eccessi edonistici e quella per cui l’assuefazione abbia buon gioco in un cervello già alterato dalle sostanze chimiche.

Perché non tutti i “drogati” diventano dipendenti?

Per quanto possa sembrare sorprendente, ancora una volta la realtà sopraggiunge a confermare la scienza, come nel caso degli oppiacei somministrati nei medicinali per attenuare il dolore dei pazienti. Si tratta di droghe persino ben più potenti di quelle che si possono trovare in strada, ma pure se la teoria delle sostanze psicotrope che attaccano il cervello facendoci diventare dipendenti fosse vera, tutti coloro che le consumano dovrebbero diventare degli irriducibili drogati.

Ma così non accade.

Ecco quindi nuovamente applicata la teoria di Bruce Alexander:

  • i tossici di strada quindi sarebbero come i topi isolati che non hanno nessuna consolazione se non l’eroina,
  • i pazienti dell’ospedale invece sarebbero come i topi della seconda gabbia circondati da una vita appagante con gente che li ama.

I legami, secondo Alexander, sono quindi la chiave per la lotta alla droga, si legge sull’Huffingtonpost.

Un altro professore citato da Johann, Peter Cohen, vede tutto ciò da un punto di vista molto interessante. Secondo lui gli esseri umani hanno bisogno gli uni degli altri, di creare un legame, ma se questo non avviene all’ora ci si rivolgerà a qualcos’altro come la droga, il gioco, … e dunque non si dovrebbe più parlare di dipendenza, ma di legame.

In questo senso quindi il contatto umano potrebbe essere la chiave per risolvere tanti problemi.

E per quanto riguarda le sostanze chimiche, vi chiederete voi? Possibile che non abbiano davvero nessuna influenza diretta?

Si potrebbe citare il paragone dei giocatori d’azzardo, ossessionati e dipendenti quanto i tossici, ma che non si iniettano niente.

Un altro “esperimento” sociale, a tal proposito, si è verificato con i cerotti di nicotina che avrebbero dovuto garantire ai tabagisti la sicurezza dei vari gangi chimici senza le controindicazioni del fumo. Purtroppo i risultati sono stati deludenti. Solo il 17% dei fumatori riusciva a smettere in questo modo. Una percentuale davvero esigua.

Tutte queste molteplici considerazioni, frutto di validi studi e pareri di esimi esperti e scienziati, portano a conclusioni molto contrastati riguardo a quanto si pensa comunemente. Forse, bisognerebbe ripensare completamente il modo di condurre la lotta a questo problema. Forse non solo di dipendenza chimica si deve parlare.

Ad esempio punire i detenuti che fanno uso di droga costringendoli per settimane nelle celle di isolamento come accade in alcune prigioni americane, non sembra essere una buona idea. Tanto più che, una volta usciti gli ex detenuti non troveranno lavoro o integrazione a causa della loro fedina penale, finendo ancora più isolati… nella gabbia, appunto.

Un’alternativa più umana ed efficace esiste, ed è stata messa in campo in Portogallo con ottimi risultati. In questo Paese, anni fa, la diffusione degli stupefacenti era altissima. Non riuscendo a venirne a capo coi metodi tradizionali si pensò a un nuovo approccio che consisteva nel reinvestire parte dei soldi che si sarebbero dovuti spendere per dare lotta ai consumatori, investendoli nel creare strutture che ne favorissero la riabilitazione e il reinserimento nella società.

Luoghi in cui queste persone disperate potessero ricevere attenzione, calore umano e un nuovo scopo nella vita grazie a un lavoro e una sistemazione. Emblematico il caso di un  gruppo di tossicodipendenti che hanno aperto una piccola azienda di traslochi, grazie a un prestito, e che ora non sono più soli, ma fanno parte di un team, sentendosi responsabili non solo di se stessi ed essendosi reinseriti pienamente nella società.

Secondo i dati del  British Journal of Criminology da quando il reato di consumo di droga è stato depenalizzato l’uso degli stupefacenti da iniezione in Portogallo è crollato del 50%.

L’analisi del perché della dipendenza dice molto anche sulla natura umana in generale, sul fatto che, lo vogliamo o meno, siamo animali sociali che bramano contatti e amore. Purtroppo la nostra società non favorisce i contatti, anzi li ostacola spingendo le persone a isolarsi e purtroppo siamo arrivati al punto a cui, un po’ a tutti, servirebbe la riabilitazione sociale.

La crescita delle dipendenze che si sta registrando in questi ultimi anni, anche in Italia, ci deve far riflettere su quanto ciò sia conseguenza della cultura sempre più materialista e della società, che ci spinge davvero a chiuderci in casa, isolandoci.

Unimamme e voi cosa ne pensate di queste considerazioni riguardanti la nostra società? Forse guarderete a questo problema in maniera diversa, cosa ne dite?

 

Maria Sole Bosaia

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