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Un papà morente alla figlia: hai riempito di gioia i miei giorni (FOTO & VIDEO)

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Michele

Non sempre i genitori riescono a lasciare ai figli esempi “visibili”, ma ciò non vuole dire che la lezione di vita, e in generale gli esempi, non arrivino comunque, magari anche in una maniera piu’ efficace. Un esempio è sicuramente quello rappresentato da Paul Klanithi.

Paul Kalanithi è un neurochirurgo, o meglio lo era. E’ infatti deceduto il 9 marzo all’età di 37 anni per un cancro al polmone (non avendo nemmeno mai fumato). La sua battaglia, durata 2 anni, gli ha permesso di guardare la sua vita, di pensare al tempo che passa e al significato di tutto ciò che viviamo. E, prima di morire, è riuscito a lasciare un messaggio alla figlia di pochi mesi (nata a luglio del 2014), Elizabeth Acadia, “Cady”.

Un neurochirurgo lascia una lettera alla figlia

Di seguito è riportata la lettera.

Durante la scuola di specializzazione c’è un detto: i giorni durano a lungo, ma gli anni sono brevi. Durante il tirocinio in neurochirurgia le giornate di solito iniziano poco prima delle 6 del mattino e finiscono al termine dell’intervento che dipende, in parte, da quanto sei stato veloce in sala operatoria.

L’abilità di uno specializzando in chirurgia solitamente viene valutata in base alla sua tecnica e alla sua velocità. Non puoi essere indeciso, né lento. Dalla prima sutura chirurgica in poi, mettici troppo tempo cercando di essere preciso e il tuo tutore annuncerà “Sembra che abbiamo un chirurgo plastico tra noi!” Oppure dirà: “Ho capito la tua strategia – quando avrai finito di cucire la parte superiore della ferita, quella inferiore sarà guarita da sola. Metà del lavoro – brillante!” Uno specializzando capo consiglierà alle matricole di “Imparare ad essere veloci – potete diventare bravi dopo“. Gli occhi di tutti sono sempre sull’orologio. Per il bene del paziente: da quanto tempo è sotto anestesia? Durante procedure molto lunghe i nervi possono venire danneggiati, i muscoli cedere, il fegato può collassare. Per il bene di tutti gli altri: stanotte a che ora usciremo da qui.

Ci sono due strategie per ottimizzare i tempi, proprio come la lepre e la tartaruga. La lepre si muove il più velocemente possibile, fa uso di movimenti rapidi e continui facendo sferragliare gli strumenti di lavoro quando cadono al suolo; la pelle scivola via come un sipario, le sezioni craniche sono sui vassoi chirurgici ancor prima che la polvere causata dal taglio delle ossa si posi al suolo. Ma l’apertura potrebbe aver bisogno di essere allargata di uno o due centimetri qua e là perchè non è stata posizionata in maniera ottimale. La tartaruga procede con cautela, senza sprecare movimenti, misurando due volte e tagliando una sola. Nessuna fase dell’operazione deve essere corretta; tutto procede in maniera sistematicamente ordinata. Se la lepre fa troppi piccoli errori e deve continuare a rimediare, la tartaruga vince. Se la tartaruga spreca troppo tempo a programmare ogni passo dell’intervento, la lepre vince.

La cosa divertente del tempo in sala operatoria, sia che tu corra freneticamente o proceda in maniera ponderata, è che non ti accorgi del suo scorrere. Se la noia è, come sosteneva Heidegger, la consapevolezza del tempo che passa, questo è l’opposto: la concentrazione intensa fa sembrare le lancette dell’orologio ferme. Due ore possono sembrare un minuto. Appena hai piazzato l’ultimo dei punti, il normale corso del tempo riprende. Puoi quasi sentirlo mentre sfreccia via. Poi inizi a chiederti: quanto tempo ci vorrà perché il paziente si svegli? Quanto ci vorrà prima della prossima operazione? Quanti pazienti dovrò vedere prima che arrivi quel momento? A che ora tornerò a casa stanotte?

Fino a quando l’ultima operazione è terminata non senti quanto è stata lunga la giornata, poi ne trascini il peso nei tuoi passi. Ti occupi delle ultime pratiche burocratiche prima di lasciare l’ospedale; a prescindere da quanto tu abbia tardato, pesano come incudini. Non possono aspettare fino a domani? No. Un sospiro, e la Terra continua a roteare intorno al Sole.

Ma gli anni, come promesso, volano via. Sei anni sono passati in un lampo ma nel frattempo, dirigendomi verso la fine della specializzazione, ho sviluppato un caratteristico insieme di sintomi – perdita di peso, febbre, sudore notturno, insopportabile dolore alla schiena, tosse – che hanno indicato una diagnosi rapidamente confermata: cancro metastatico ai polmoni. L’oppressione degli ingranaggi del tempo. Nonostante sia stato in grado di specializzarmi zoppicando un po’ durante la cura, ho avuto una ricaduta, sono stato sottoposto alla chemioterapia e ho sopportato una lunga ospedalizzazione.

Sono uscito dall’ospedale indebolito, con gli arti sottili e i capelli ancora più sottili. Incapace di lavorare, sono stato lasciato a casa in convalescenza. Alzarmi da una sedia o sollevare un bicchiere d’acqua richiedevano sforzo e concentrazione. Se il tempo può dilatarsi quando ci si muove alla velocità della luce, può contrarsi quando non ci si muove affatto? Deve: le giornate si accorciarono sensibilmente. L’attività di un giorno intero poteva risolversi in un appuntamento medico o nella visita di un amico. Il resto del tempo era dedicato al riposo.

Con poche cose che mi aiutavano a distinguere un giorno dal successivo, il tempo iniziò a sembrare statico. In Inglese usiamo la parola “tempo” in due modi differenti, per indicare un orario (“the time is 2:45” nda) oppure un momento particolare (“I’m having a tough time” nda). Ho iniziato a sentire il tempo sempre meno come il ticchettio di un orologio e sempre più come uno stato d’essere. Arrivò l’apatia. Concentrato in sala operatoria, la posizione delle lancette dell’orologio può sembrare arbitraria, ma mai priva di significato. Ora l’orario della giornata non significava nulla, e i giorni della settimana poco di più.

La coniugazione verbale diventò confusa. Quale era il modo di dire giusto? “Sono un neurochirurgo”, “Ero un neurochirurgo”, “Sono stato un neurochirurgo in passato e lo sarò ancora”? Graham Greene credeva che vivessimo la vita durante i primi 20 anni e che il resto fossero solo un riflesso. In che passato stavo vivendo? Ero passato, come uno dei personaggi bruciati di Greene, oltre il passato prossimo raggiungendo il passato remoto? Il futuro prossimo sembrava vuoto e, sulle labbra degli altri, scioccante. Ho partecipato di recente alla mia quindicesima riunione tra compagni del college; sembrava scortese rispondere ai saluti dei vecchi amici “Ci vediamo alla venticinquesima!” con un “Probabilmente no!”

Ma nella nostra casa c’è dinamicità. Nostra figlia è nata pochi giorni dopo il mio rilascio dall’ospedale. Settimana dopo settimana, fiorisce: la prima stretta, il primo sorriso, la prima risata. Il suo pediatra annota regolarmente la sua crescita su dei grafici, che segnalano la sua crescita nel tempo. Un’accecante novità la circonda. Quando mi siede in braccio sorridendo, incantata dal mio canto stonato, una luce incandescente riempie la stanza.

Per me è una lama a doppio taglio: ogni giorno mi allontana dal punto più basso che ho toccato a causa del cancro, ma mi avvicina anche alla mia ricaduta ed, eventualmente, alla morte. Forse più in là di quanto creda, ma certamente prima di quanto desideri. Ci sono, immagino, due risposte possibili a questa considerazione. La più ovvia potrebbe essere l’impulso frenetico all’attività: “vivere la vita al meglio”, viaggiare, cenare, raggiungere obiettivi abbandonati da tempo. Parte della crudeltà del cancro, tuttavia, non è solo il limitare il tuo tempo ma il limitare la tua energia, riducendone la quantità che puoi investire in una giornata. Sei una lepre stanca che adesso corre. Ma anche se avessi avuto l’energia, avrei preferito un approccio da tartaruga. Arranco, medito, qualche giorno continuo a esistere e basta.

Tutti soccombono alla limitatezza. Sospetto di non essere il solo a raggiungere questo stato piuccheperfetto. La maggior parte dei sogni sono raggiunti o abbandonati; in ogni caso, appartengono al passato. Il futuro, invece di una scala verso gli obiettivi della vita, si appiattisce in un perpetuo presente. Soldi, stato sociale, tutte le vanità descritte dai predicatori, sono così poco interessanti: si tratta di inseguire il vento, senza dubbio.

Ma c’è qualcosa a cui il futuro non può essere rubato: mia figlia, Cady. Spero di vivere abbastanza perché abbia qualche ricordo di me. Le parole hanno una longevità che io non ho. Ho pensato che avrei potuto lasciarle una serie di lettere – ma cosa direbbero davvero? Non so come sarà questa ragazza a 15 anni; non so nemmeno se le piacerà il soprannome che le abbiamo dato. Forse c’è solo una cosa da dire a questa neonata, che è tutta futuro, sovrapposta brevemente a me, la cui vita, salvo l’improbabile, è tutto meno che passato.

Il messaggio è semplice: quando arriverai ad uno dei momenti della vita in cui dovrai stilare per te un resoconto di te stessa, fornire un compendio di ciò che sei stata, hai fatto, e hai significato per il mondo, non sottovalutare, ti prego, di aver riempito di gioia a sazietà i giorni di un uomo morente, una gioia a me sconosciuta in tutti i miei precedenti anni di vita, una gioia che non vuole più e più cose, ma si ferma, soddisfatta. In questo momento, proprio ora, è una cosa enorme.

Segue un video in cui Paul racconta e si racconta (attivate i sottotitoli, ne vale la pena!)

Leggere queste parole, e ascoltarle nel video, fa bene al cuore. Quando ci troviamo bloccati, per cause di forza maggiore, il nostro tempo non rimane più in mano agli altri, non rimane ostaggio  degli scopi che ci siamo prefissi nella vita, alla necessità di sembrare quello che vorremmo essere. Chimere che occupano  le 24 ore di un giorno e ci allontanano da quello che siamo.

La vita frenetica di oggi ci ha allontanato da noi stessi e solo un evento, come una malattia che ci costringe a letto, ci riporta dentro il nostro  essere. Una considerazione forte, passibile di molte critiche ma alla fine se ognuno di noi si mettesse a pensare a quanto poco tempo possiede per riflettere, per perdersi  e poi ritrovarsi seguendo l’istinto, per annoiarsi e poi vivere un giorno da leoni, dimenticandosi dello scorrere delle lancette dell’orologio,  senza che ci sia la necessità di sapere che ore sono ogni cinque minuti, si renderebbe conto che non ne ha poi molto a disposizione. E gli affetti riacquistano un’importanza che si era persa tra mille impegni. danno valore e dignità a quello che siamo veramente. Noi non siamo solo la professione che esercitiamo, il ruolo sociale che occupiamo. Non siamo solo esseri che vengono etichettati in qualsiasi contesto in cui ci troviamo ad orbitare. E tutto questo lo puoi riscoprire avendo tempo. 

In una canzone che ascoltavo molti anni fa (ogni tanto l’ascolto ancora)  c’è un verso che dice : ” Siamo una razza che adora gli orologi ma non conosce il tempo”

Dedicata a voi Unigenitori.

 

Michele

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