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Curare il cancro al seno ma “senza chemioterapia” : i risultati della sperimentazione italiana

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Michele

Care Unimamme, torniamo a parlare di  cancro al seno, per un importante aggiornamento sullo sviluppo delle nuove cure che agiscono su questa dura malattia.

La sperimentazione che vi descriviamo parla italiano e si sta portando avanti grazie all‘Istituto Oncologico Veneto di Padova. Si sta cercando di mettere appunto un nuovo protocollo per curare il cancro al seno e che faccia in modo di non ricorrere alla chemioterapia per le donne che hanno uno dei tumori al seno più aggressivi, chiamato in gergo l’HER2-positivo.

Cura del cancro al seno : i risultati del “nuovo protocollo”

Lo studio clinico è iniziato a maggio del 2014 e che si dovrebbe concludere tra un anno, nell’aprile del 2016 ed  alla sperimentazione partecipano molte strutture: l’Istituto Europeo di Oncologia, l’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, l’ospedale Sant’Anna di Ferrara, l’ospedale Santa Maria della Misericordia di Udine, il Santa Chiara di Pisa e l’Istituto per la ricerca e la cura del cancro di Candiolo(TO).

Ad oggi sono state coinvolte nello studio un totale di 15 donne con l’obiettivo di estenderne il numero ad 80. Le caratteristiche di queste pazienti sono molto restrittive e che appartengono al 7-8% delle donne che si ammalano di cancro al seno:

  • sono in menopausa
  • hanno un tumore non solo HER 2 positivo, questo significa che sulla superficie delle sue cellule presenta una proteina chiamata “recettore di tipo 2 del fattore di crescita epidermico umano”, ma anche sensibile agli ormoni femminili.

Lo studio si sviluppa in diverse fasi e successivamente alla diagnosi del tumore attraverso la biopsia,  a questo punto:

  • si valuta la velocità di proliferazione delle cellule cancerose, cioè si stabilisce un parametro che esprime la percentuale di cellule tumorali che hanno la potenzialità di duplicarsi, che si esprime tramite il valore del Ki67;
  • viene somministrato per due settimane  il letrozolo, un farmaco anti-ormonale,  una terapia standard per le pazienti in menopausa;
  • dopo le due settimane si procede a nuova biopsia e alla rivalutazione del Ki67.

Pierfranco Conte, direttore del dipartimento di Oncologia Medica 2, spiega che a questo punto:

Se questo valore è diminuito, vuol dire che l’aggressività del tumore è stata inibita, e quindi che la terapia anti-ormonale sta funzionando. Cominciamo allora a somministrare anche i due farmaci specifici per i tumori HER2-positivi, trastuzumab e pertuzumab, e la terapia combinata va avanti per 5 mesi. Senza la chemioterapia, che da protocollo verrebbe invece prescritta”.

Ma cosa accade se il Ki67 non diminuisce dopo il trattamento di due settimane? Se l’aggressività non è stata inibita dal trattamento significa che la terapia anti-ormonale da sola può non essere sufficiente. Queste donne quindi smettono di assumere il letrozolo e iniziano la chemioterapia, più i due farmaci specifici trastuzumab e pertuzumab.

I risultati dello studio sono incoraggianti poiché pare stiamo mostrando i dati sperati:

  • nel 70% dei casi si ottiene, dopo due settimane, una evidente diminuzione della velocità di crescita delle cellule cancerose
  • si è visto che dopo cinque mesi di trattamento non ci sono più cellule tumorali
  • ad oggi, circa i 2/3 delle 15 donne arruolate sembra poter far a meno della chemioterapia.

Anche se i risultati sono da prendere con prudenza, le percentuali sin qui evidenziate sono molto interessanti. Come ha sottolineato il prof. Conti nell’intervista pubblicata da Repubblica è da ben intendere che lo studio non è basato sull’uso di farmaci nuovi ma s un nuovo modo di classificare i pazienti.

“Classificare le malattie cancerose a seconda delle loro caratteristiche molecolari e genetiche, per trovare la terapia più adatta e meno invasiva contro ciascuna di esse. In questo studio ci siamo posti l’obiettivo di trovare il protocollo terapeutico più efficace per una categoria molo selezionata di pazienti, facendo possibilmente a meno della chemioterapia. Non ci siamo riusciti al 100%, ma abbiamo individuato una quota significativa di casi che ha risposto in modo molto soddisfacente. Ce n’è abbastanza per guardare a una seconda fase dello studio con ottimismo”.

Care Unimamme, cosa ne pensate? Condividete l’approccio descritto dal prof. Conti?

(Fonte: Repubblica)

Michele

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