Ascoltando i londinesi nelle loro conversazioni sugli studi effettuati, ci si stupisce degli argomenti ridotti ad un unico elemento di rilievo: non ci si sofferma su quale indirizzo universitario intrapreso, sull’istituto superiore o i voti con cui si è usciti dagli studi, no, il punto principale è quale scuola si è frequentata.
Una vera e propria ossessione che si lega a doppio filo con la mobilità sociale tra diverse generazioni, e quindi alla correlazione tra gli stipendi dei padri e quelli percepiti dai potenziali figli.
Alcuni dati ci aiuteranno a comprendere meglio il discorso:
E questo andamento si riscontra in tutte le professioni di prestigio, compresi gli sport:
I dati sono forniti dalla Social Mobility Commission, anno 2014.
In Italia il problema sta tornando a livelli impressionanti, dopo circa un cinquantennio più aperto anche per le classi sociali meno abbienti. Il figlio di un operaio, con le giuste qualità e un percorso di studi tutelato, poteva aspirare a migliorare le sue condizioni, scuole e università pubbliche garantivano una più che ottima istruzione. Ora, grazie alla grande crisi di questo inizio millennio e ad una globalizzazione selvaggia, le rendite di posizione e il privilegio di appartenere a classi sociali più agiate tornano ad essere gli elementi indispensabili per capire da chi è formata la classe dirigente del Paese.
Certamente, essere il figlio di un industriale ha sempre portato enormi vantaggi e garantisce ottime posizioni sulla griglia di partenza per affrontare la vita. Ma oggi sta diventando l’unica opzione per raggiungere i propri scopi lavorativi. E l’Italia detiene il podio, insieme a Gran Bretagna e Stati Uniti, dei paesi ad Alta Disuguaglianza e bassa Mobilità Sociale.
Presa visione di tutti i parametri (livello di istruzione, stimoli ricevuti nel contesto familiare, situazione socio-economica della famiglia di origine) si può comunque ribadire che ad un alto livello di istruzione corrisponde una maggiore possibilità di lavoro. Ma i laureati italiani faticano molto di più a trovare un buon impiego, rispetto ai coetanei francesi e spagnoli e traggono meno benefici per la mobilità sociale offerta da un più elevato titolo di studio.
A fare la differenza non sono tanto le scuole frequentate quanto quello che accade dopo il diploma o la laurea.È proprio in quel periodo che si viene a formare un divario difficilmente recuperabile tra chi proviene da una famiglia con la possibilità economica di mantenere il figlio, durante i lunghi stage pagati poco o niente, praticantati, scuole di specializzazione, e un ragazzo che appartiene a ceti sociali più bassi.
Un rapporto Istat del 2012 evidenzia come i giovani nati nel quinquennio 1980-1984 si siano trovati il primo impiego in un livello sociale più basso, rispetto ai loro genitori e meno di un sesto è riuscito a migliorare la situazione. La mobilità discendente ha interessato i nati dalla fine degli anni sessanta in poi.
Nel Regno Unito qualcosa si sta muovendo negli ultimi anni. Si è creato un serio dibattito su come invertire questo trend, il Parlamento nel 2011 ha istituito una Commissione Governativa, la Social Mobility Commission, che monitora costantemente la mobilità sociale.
La commissione propone riforme e nuove politiche per favorire l’accesso alle professioni e alla formazione a giovani di ogni estrazione sociale. I datori di lavoro vengono incentivati ad aumentare il salario per gli stage, ad esempio.
Poi ci sono le imprese sociali come la Arrival Education, che lavorando in sinergia con scuole (non private), aziende e famiglie per evitare la dispersione scolastica, propone biennali in cui vengono incentivati i ragazzi a fare teatro e stage di ogni tipo. Organizza incontri tra i giovani e i manager di affermate aziende. Insomma un buon punto di ripartenza.
E in Italia? E voi, Unigenitori, che mobilità sociale prevedete per i vostri figli?
(Fonte: Il Fatto Quotidiano / Istat.it)
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