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Categoria Salute e benessere in gravidanza

Il viaggio verso l’ospedale – La versione del papà

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Andrea Mondati

Il giorno della nascita è uno spartiacque importante. Per una coppia, per la madre, ma soprattutto per il padre. La mamma in qualche modo ha avuto modo di crescere nel suo nuovo ruolo, man mano che la nuova vita cresceva dentro di lei. Il papà, invece, l’ha sempre vissuto dall’esterno, consapevole di un cambiamento imminente, che però nei nove mesi precedenti non ha ben compreso del tutto.

Per tutto il periodo dell’attesa, vive solamente il cambiamento della coppia, con i problemi che questo comporta, e si confronta con un’idea, un sogno, non con una realtà. Il cambiamento di ruolo lo investe il giorno del parto. Per lo meno, per me è stato così.

Il termine per la nascita era passato da qualche giorno e io fremevo come quando si ha un appuntamento con una ragazza che ti piace. Tu sei lì, sei arrivato in anticipo perché fremevi all’idea di incontrarla. Man mano che l’orario stabilito si avvicina, sei sempre più nervoso, emozionato. Guardi di continuo l’orologio, pensando che quando la lancetta dei minuti scatterà sull’ora che avete stabilito, magicamente la vedrai arrivare. Ma poi l’ora arriva e tu non vedi ancora nessuno. Continui a guardare l’orologio, stavolta per vedere quanto è il ritardo. Inizi a farti domande, se hai capito bene il luogo e l’ora, se è le successo qualcosa, magari ha cambiato idea, fino a quando in lontananza non la vedi arrivare. Bellissima e meravigliosa, inizi ad essere nervoso perché non sai cosa fare, se andarle incontro, salutarla con la mano, essere indifferente o farle capire che ci tieni a lei. Così è l’attesa quando il termine passa. Era un venerdì sera e io e Marta andammo a letto a mezzanotte, inconsapevoli di quello che sarebbe successo di lì a poco.

All’una di notte, Marta iniziò ad avere contrazioni che non la facevano dormire. Naturalmente, neanche io potevo dormire, vedendola in quello stato. Anche l’emozione faceva la sua parte. Dentro di me continuavo a ripetermi: “Ci siamo. Finalmente è il momento. Giacomo sta arrivando”, come se dovesse accadere da lì a pochi istanti. In realtà per noi non ci furono scene da film con il papà che nervosissimo carica la moglie in macchina per correre il più velocemente possibile all’ospedale, suonando il clacson per farsi spazio tra il traffico.

Alle 10,30 eravamo ancora a casa, Marta che cercava di gestire le contrazioni e io con l’orologio in mano a cronometrarle. Dopotutto ci avevano detto di andare in ospedale solamente quando sarebbero state molto lunghe e molto ravvicinante. Preso dalla stanchezza e dall’impazienza, anche un po’ dalla paura di gestire da solo quella situazione nuova e spaventosa, cercavo di trovare una motivazione qualsiasi per portarla all’ospedale. Come se una volta arrivati lì, nostro figlio sarebbe magicamente arrivato. Come uno scambio al supermercato: entra la moglie incinta, esce la mamma con il bambino in braccio. In realtà sarebbe stato un po’ più complesso di così, ma ancora non potevamo rendercene conto. Fra pensieri e paure, finalmente le contrazioni sembravano sufficientemente vicine. Perciò portai Marta in macchina, facendo la lista mentale delle cose che dovevo prendere e pregando di non aver dimenticato nulla. La corsa fu un ossimoro continuo. Marta continuava a ripetermi: “Corri! Cavolo, Andrea, vai piano! Sbrigati ad arrivare! Però non correre!”. Io ero lì, respiravo per non risponderle, non potevo certo farle notare la difficoltà fisica di correre andando piano. Poi, finalmente, arrivammo all’ospedale.

Non descriverò l’esperienza tecnica del parto. Essendo stato un po’ complicato, Marta mi ha ordinato di non dilungarmi in particolari, per non spaventare le future mamme. E devo dire che ha ragione, dopotutto ogni parto è differente e unico e ogni coppia deve sperimentarlo sulle proprie spalle.

Per tutti quei nove mesi mi ero sentito ripetermi dai miei due cognati, due versioni completamente differenti. Uno, entusiasta, sosteneva: “Entra dentro, stai lì perché è un momento meraviglioso e non devi perdertelo”. L’altro invece, traumatizzato, mi consigliava sommessamente: “Non entrare! Quello non è posto per uomini. Vorrei proprio sapere chi ha permesso una cosa del genere!”. In realtà io ero entrato per un motivo differente. Per Marta sarebbe stato un momento duro e io dovevo essere lì con lei, per aiutarla, anche solo se con la mia presenza. Quindi, quando la portarono in sala parto, io la seguì, terrorizzato, cercando di non farlo vedere a lei, pronto a fare ciò che era mio compito. Senza sapere cosa mi stava aspettando.

Unimamme, e i vostri mariti/compagni come si sono comportati? Come hanno vissuto gli ultimi momenti dell’attesa?

Andrea Mondati

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