Già l’arrivo all’ospedale era stato abbastanza difficoltoso. Mi sentivo come una formica in un mondo di giganti: l’essere più insignificante sulla faccia del pianeta. Cercavo di rendermi utile come meglio potevo, aiutando Marta spaventata dalle contrazioni, standole vicino durante le docce calde, aspettando l’arrivo del travaglio attivo.
Ero mentalmente e fisicamente distrutto. Evitavo di sedermi, perché appena lo facevo, mi addormentavo e non potevo permettermelo. Cercavo di fare massaggi a Marta per aiutarla durante le contrazioni, per alleviare il dolore, con pochi risultati. Me la prendevo con le ostetriche perché, per la mia personale opinione, naturalmente sbagliata, non davano sufficienti attenzioni a mia moglie.
Poi finalmente, dopo 48 ore, arrivò il travaglio attivo. Tenevo la mano a Marta, senza dire nulla, me lo aveva chiesto lei, sopportando il dolore della sua stretta, dormendo con lei tra una contrazione e l’altra. Praticamente ero alla stregua di un bracciolo di una sedia del dentista, per il ruolo pratico che avevo. Emotivamente, però, sapevo che per Marta era fondamentale che io fossi lì. E poi meglio stare zitto che dire la cosa sbagliata.
Il parto proseguì fino all’alba di lunedì. Sorsero delle complicazioni e Marta fu costretta a fare il cesareo. Io fui sul punto di picchiare il dottore, a causa della stanchezza e del nervosismo, sbagliando. Non era nulla di grave, dopotutto. Giacomo non era mai andato in sofferenza e Marta era semplicemente troppo stanca.
Allora, dopo che una infermiera ci azzittì ricordandomi che Marta non aveva certo bisogno della mia rabbia (grazie Erica!) mi ritirai in un angoletto a singhiozzare sommessamente come un bambino, incapace di fare qualsiasi cosa, pienamente consapevole del significato della parola “inutile”.
Il dottore, le ostetriche e l’infermiera gestirono benissimo la situazione e portarono Marta in sala operatoria. Io chiamai mia suocera e, singhiozzando, incapace di comporre una frase di senso compiuto, cercai di spiegarle cosa stava succedendo. Quando arrivò all’ospedale, appoggiai la testa sulla sua spalla ed esplosi in un pianto disperato e liberatorio. L’ansia e la preoccupazione continuavano ad esserci. Aspettavo qualche notizia fuori dalla sala operatoria, camminando fuori dalla porta.
Quando finalmente uscì l’infermiera con la culla calda e Giacomo al suo interno, mi comunicò da lontano che entrambi stavano bene. Allora guardai Giacomo e tutto si azzittì. Avevo sempre pensato che sarei scoppiato in lacrime, sarei esploso di gioia urlando non appena lo avessi visto. In realtà, molto semplicemente, una sensazione di calma invase il mio corpo e la mia mente, mentre un dolce sorriso si allargò sul mio volto. Accompagnai l’infermiera a lavarlo e a prendere le prime misurazioni. Giacomo era lungo 54 cm e pesava 4,380 Kg. Lo presi in braccio. Lui era silenzioso e tranquillo. Dolcemente gli dissi: “Ciao Giacomo…” e lui esplose in un forte pianto. Allora ridendo gli dissi: “Fai così perché non mi riconosci o perché mi hai riconosciuto?”.
Lo riconsegnai all’infermiera e tornai ad aspettare Marta fuori dalla sala. Quando uscì, la vidi bellissima, tranquilla perché aveva già visto Giacomo, e finalmente rilassata. Ci accompagnarono nuovamente in sala parto per cercare di fare lo skin-to-skin, nonostante il cesareo. Ci portarono Giacomo e finalmente fummo tutti insieme. Per la prima volta, insieme.
Mi sono interrogato molto su come terminare questo racconto, ma non esiste un modo per spiegare a parole la gioia stupenda e meravigliosa provata quel lunedì mattina. La potenza ristoratrice di rendersi conto di avere un figlio. Ho cercato di raccontare tra le righe le emozioni che un uomo può provare durante il parto. Ma forse il modo migliore per raccontare cosa ho provato quel giorno, è utilizzare due semplici parole:
Sono padre.
E per voi unimamme come è stato il momento della nascita? E per i nuovi papà?
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