Quando nasce una vita, le emozioni dovrebbero essere sempre di gioia e commozioni. Non tutte le foto però sono così, alcune purtroppo indignano: l’immagine della bambina nata nel fango presso il campo profughi di Idomeni, in Grecia, sta facendo il giro del mondo, e ci costringe nuovamente a riflettere sul modo in cui l’Europa sta trattando le persone in fuga dalla guerra.
A seguito delle restrizioni sulle quote di accesso del numero di profughi migliaia di persone si ritrovano bloccate in questo luogo chiuso da una barriera costruita dalla Fyrom (l’ex Repubblica Jugoslava di Macedonia).
Dopo un vertice svoltosi il 23 febbraio è stato stabilito infatti che potranno uscire dalla Grecia solo i siriani e gli iracheni, restano invece esclusi gli iraniani, gli afgani, i pakistani che pure aveva cercato la salvezza in Europa.
La situazione è drammatica come testimoniano le immagini raccolto dal fotografo Cosimo Caridi . Sulle isole greche arrivano infatti quotidianamente 1500, 2000 profughi ma solo pochissime centinaia possono passare dalla recinzione costruita a Idomeni per contenerli.
I gruppi si sono organizzati su base famigliare: yazidi, cristiani iracheni sono quelli più vicini alla rete che vivono in prima persona il degrado e il sovraffollamento. Vicino alle strutture che distribuiscono il cibo ci sono i palestinesi siriani, mentre più lontano dal campo ci sono i curdi. In mezzo ci sono tantissimi altri gruppi a cui poi si aggiungono anche i marocchini, gli egiziani e gli altri migranti economici, solitamente giovani uomini che viaggiano in gruppo.
“Alcuni di questi ultimi hanno provato a scavalcare le recinzioni. la polizia ci ha preso dopo giorni di cammino” racconta Abdul, uno di loro. Le reti macedoni si perdono in un bosco a ovest del campo “Ho provato a saltarle diverse volte e all’ultima ci sono quasi riuscito. Eravamo in quattro, non ci mancava molto per arrivare in Serbia. Qualcuno ci ha visto e ha chiamato la polizia. Ci hanno picchiato, hanno distrutto i nostri cellulari...” racconta un testimone su Festival dei diritti umani.
Il fatto che le Nazioni Unite non abbiano riconosciuto ufficialmente il campo di Idomeni complica la situazione, ma esiste una “spiegazione”, come dichiara Babar Baloch, portavoce dell’Unhcr per Idomeni: “Non possiamo chiamarlo campo profughi non ci sono le strutture per considerarlo un rifugio”.
Infatti non ci sono cucine, esistono poche decine di bagni pubblici, le famiglie vivono nelle tende.
Se fosse l’Onu a dirigerlo qui potrebbero accedere solo i profughi registrati che quindi non avrebbero diritto a chiedere asilo in un altro Paese. Senza l’Onu però nessuno riesce a garantire la distribuzione di pasti caldi.
Fino a poco tempo fa agricoltori, disoccupati e il gruppo “no borders” prestavano assistenza portando cibo, vestiti e garantendo un piatto di zuppa calda la sera.
La pioggia e il fango hanno smosso un po’ la situazione consentendo a centinaia di persone di lasciare questo girone infernale ma ancora migliaia attendono:almeno 12 mila rifugiati.
La maggior parte delle persone infatti preferisce rimanere qui in attesa del prossimo vertice UE del 17 marzo. Nel frattempo a due migranti, poi prontamente trasportati in ospedale, è stata diagnosticata l’epatite A e questo fa temere il possibile diffondersi di epidemie.
In questo caos è venuta alla luce la piccola Bayan, lavata con l’acqua di una bottiglietta dalla sua mamma, un’immagine che purtroppo non basta a smuovere le potenze europee ma che forse può rappresentare una luce di speranza.
Unimamme, solo qualche mese fa un’altra immagine era diventata virale, ed era quella del piccolo Aylan sulla spiaggia. Vogliamo davvero che questo sia l’esempio di accoglienza che vogliamo trasmettere ai nostri figli? E se fossero loro i soggetti ripresi da queste foto?
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