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“Mio figlio è nato morto ma poteva essere salvato” denuncia un papà

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Maria Sole Bosaia

Affrontare un lutto perinatale per una famiglia è un’esperienza durissima, purtroppo a fronte del fatto che 1 bambino su 200 nasca morto nella maggior parte dei Paesi europei (11 al giorno solo nel Regno Unito) non si parla ancora abbastanza di questo argomento.

Ma un papà, che ha visto  nascere il suo bambino, purtroppo morto, vuole raccontare la sua esperienza e ciò che ha scoperto, per aiutare genitori e contribuire a rompere il silenzio.

Bambini nati morti: cosa si può fare per prevenire questa tragedia?

Jop de Vrieze, uno scrittore freelance che si occupa di scienze, racconta su Newscientist come la nascita del figlio Mikki, avvenuta il 27 agosto dello scorso anno, lo abbia reso insieme orgoglioso e triste. “Mikki è nato in silenzio“, racconta Jop, ricordando che 2 giorni prima avevano saputo che era morto, inaspettatamente, alla 34esima settimana. Jop aggiunge inoltre che sapendo ciò che sa ora sulla morte in utero, forse il figlio avrebbe avuto una chance.

Quando infatti i movimenti del figlio sono diminuiti, invece di venire rassicurati che tutto stesse andando bene, sarebbe stato necessario monitorare meglio la sua condizione e indurre il parto prima che fosse troppo tardi.

Jop, che è olandese, racconta che nel suo paese, come in altri, la morte in utero tende ad essere considerata “una soluzione naturale” ed inevitabile, perché si pensa che questi bambini siano troppo deboli per sopravvivere, e questi casi vengono ritenuti trascurabili se comparati con la morte di un piccino avvenuta dopo il parto.

Per tali motivi il lutto perinatale non mai stato inserito nell’agenda politica, rimanendo un argomento taboo per i genitori. E ciò, nonostante gli esperti sostengano però che il 50% di queste tragedie potrebbe essere prevenuto.

Se infatti è vero che alcuni bambini muoiono come risultato di gravi problemi congeniti, nella maggioranza dei casi non accade così. Ad esempio nel caso del figlio di Jop, la causa delle morte è stata una disfunzione della placenta, che ha arrestato la crescita e lo sviluppo fetale. Ciò può portare o a una nascita prematura, o, come nel caso di Mikki, ad una combinazione “fatale” di mancanza di ossigeno e fame.

Jop aggiunge che purtroppo la “riduzione della crescita fetale” non può essere trattata, ma bambini come Mikki possono essere salvati con un induzione del parto, o in casi di emergenza, con un cesareo. Ma per far ciò occorre che la loro condizione venga diagnosticata in tempo. Ecco perché è importante parlare di morte in utero!

Qualcosa si sta muovendo, infatti il Sistema Sanitario inglese ha lanciato a fine marzo alcune linee guida Saving Babies’ Lives (Salvando le vite dei bambini) contenenti utili e chiare informazioni su cosa i professionisti del settore e i genitori possono fare per prevenire la morte in utero, come:

  • migliorare lo stile di vita
  • aumentare la consapevolezza sui sintomi.

Lo scopo di tali linee guida è quello di dimezzare i tassi entro il 2030. E tutti i paesi dovrebbero seguirne l’esempio, sottolinea giustamente Job.

Oltre a questo, occorrerebbero anche:

  • maggiori valutazioni post mortem in modo da approfondire la conoscenza in maniera diretta e indiretta delle cause
  • migliorare le cure durante la gravidanza e alla nascita
  • migliorare i metodi diagnostici per distinguere gravidanze normali e anormali
  • aumentare i tassi di rilevamento e prevenire interventi non necessari, mediante migliori e maggiori ultrasuoni o biomarcatori del sangue e delle urine della mamma.

Occorre fare ricerca seria, per capire meglio cosa ad esempio determina una disfunzione della placenta e come trattarla o prevenirla, aggiunge.

Oltretutto la morte in utero ha un enorme impatto economico, sociale e psicologico.

Quindi, conclude questo padre, “è tempo di smettere di tacere ovunque e fare qualcosa per salvare questi bambini“.

Unimamme e voi cosa ne pensate di queste considerazioni e proposte? Conoscete qualcuno che ha affrontato situazioni così drammatiche?

Noi vi lasciamo con la testimonianza diretta su questo argomento di una mamma, che è riuscita a salvare la figlia. e vi ricordiamo l’associazione CiaoLapo che da anni si batte per una maggiore sensibilizzazione.

Maria Sole Bosaia

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