Per un papà, poi, tutto diventa una sua responsabilità. Anche se può sembrare un discorso maschilista, un padre sente sulle spalle il dovere di sostenere e proteggere la propria famiglia. Non perché una donna non ne sia in grado o perché una madre non sia autorizzata a farlo. Anzi, forse le donne saprebbero gestire molto meglio queste responsabilità, riuscendo a far combaciare tutti gli aspetti.
Un padre si sente responsabile un po’ perché questo è il modo in cui siamo stati cresciuti, con l’uomo che usciva la mattina e tornava la sera, stanco per la giornata di lavoro vissuta, un po’ perché cerchiamo il nostro posto e ruolo all’interno di una relazione madre-figlio che osserviamo in qualche modo solamente da spettatori. Così, lavorare duramente per sostenere la famiglia, ci sembra il modo migliore per essere padri. Quindi raddoppi gli sforzi sul posto di lavoro per poter donare al tuo bambino tutto ciò di cui ha bisogno, le cose più o meno necessarie, certo di volergli regalare una vita piena di opportunità e possibilità e non di rinunce. Le giornate si susseguono sempre più impegnative e la stanchezza si accumula. La notte si dorme poco, il giorno si lavora molto. Torni a casa stanco e stressato e vorresti solamente buttarti sul divano e scordarti della giornata intensa appena trascorsa. Apri la porta e ti rendi conto che le cose andranno diversamente. Perché tuo figlio ti aspetta. Perché Giacomo vuole giocare.
La prima volta che compresi realmente cosa voleva dire essere padre, fu proprio una sera in cui ero tornato a casa particolarmente stanco. Giacomo aveva iniziato a gattonare e io lo vedevo crescere ogni giorno di più. Con molta tristezza e vergogna, vi dico che iniziavo anche un po’ ad abituarmi a quel suo bellissimo sorriso di felicità quando mi vedeva varcare la soglia di casa. Io aprivo la porta, lui mi sorrideva contento, io contraccambiavo con sincerità, ma subito mi dirigevo a spogliarmi, perso ancora nelle preoccupazioni della giornata appena trascorsa e negli impegni di quella successiva. Quella sera, poi, ero particolarmente stanco. Avevo dormito poco la notte e la giornata era stata lunga e complicata. Avevo solamente voglia di andare a dormire. Marta si accorse del mio stato d’animo e, visto che la cena doveva ancora essere preparata mi disse:
“Se tu stai un po’ con Giacomo, penso io alla cena”
“…perché quando torni a casa, puoi essere stanco quanto vuoi, ma a loro non interessa, vogliono stare con te!” riferendosi ai bambini con un grande sorriso amorevole sul volto.
Presi allora in braccio Giacomo e lo portai sul tappeto dove di solito giochiamo. Svogliatamente, senza dire niente, presi un po’ di giochi e li misi davanti a lui. Giacomo naturalmente era contentissimo. Balbettava sillabe a caso, passando da un gioco all’altro, sbattendo con forza i pezzi tra di loro per fargli fare rumore. Io invece, stanco e pensieroso, impilavo svogliatamente le costruzioni senza un senso preciso. All’improvviso, Marta mi richiamò dal labirinto dei miei pensieri: “Ma non vedi che vuole stare con te?” mi riproverò. “Marta, per favore, sono stanco!” risposi stupidamente io. Mentre ero voltato verso di lei, sentii un tocco leggero e delicato sul mio braccio. Realizzai in quel momento che i rumori che produceva Giacomo, si erano improvvisamente zittiti. Mi voltai verso di lui e lo trovai a fissarmi con gioia, con un largo sorriso sdentato sul volto.
In quel sorriso di un bambino di pochi mesi, c’era contenuto un mondo di messaggi. C’era il ringraziamento per essere lì con lui, la richiesta di giocare insieme, l’amore, la felicità, l’unione tra padre e figlio. Non potei fare a meno di sorridere e lo stesso fece Marta. Un sorriso mi spuntò in faccia e, tirando un falso sospiro di rassegnazione, presi Giacomo in braccio e iniziai a giocare con lui, seriamente, con la testa concentrata su quell’instante preciso, certo di aver compreso quale era il compito più importante che mio figlio mi stava chiedendo: semplicemente, esserci.
Perché in fondo, a che serve lavorare per potersi permettere di riempirli di giochi, se poi non abbiamo il tempo di giocarci insieme a loro? Come possono imparare a sfruttare le opportunità e le possibilità per cui lavoriamo tutto il giorno, se non siamo lì accanto a loro per insegnargli ad affrontare il mondo? Perché la frase che quel mio amico mi disse, nonostante l’ironia, aveva al suo interno una grande verità: l’unica cosa che i nostri figli ci chiedono, è di essere con loro. E se qualche volta ci perdiamo, cadiamo, dimentichiamo qual è la cosa migliore da fare, ci sono sempre loro a ricordarcelo. Basta solamente ascoltarli.
Voi unigenitori, riuscite ad essere presenti con i vostri figli?
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