“Nato vivo è il viaggio lungo il percorso di nascita del mio ultimo figlio.
Lui arriva dopo la morte di due bambine, due maternità distinte, interrotte spontaneamente nel secondo trimestre di gravidanza.
Contrariamente a quanto si pensi, una nuova gravidanza non cancella le esperienze dolorose, non ripaga dei lutti subiti, non è una gravidanza come le altre.
La morte di un figlio cambia per sempre. Mi ha obbligato a fare certi conti con me stessa, mi ha costretta ad ammettere di non essere infallibile, ad accettare di non essere onnipotente, di non avere controllo su gran parte dei fatti importanti della vita.
Quando le mie figlie sono morte, ho passato un periodo molto faticoso e doloroso, durante il quale ho combattuto una guerra fra me e me, e fra me e gli altri.
Una parte di me non capiva. Non capiva come potessi stare tanto male per avere perso delle figlie che erano considerate più aborti che figlie. L’altra parte di me soffriva, consapevole che piccole o grandi, nate vive o no, io ero madre di due figlie morte.
Come si fa la mamma di figli che non ci sono?
Come si convive con l’assenza?
Come si fa ad esistere ed essere legittimata in quanto madre di tutti i miei figli?
Come si sopporta il peso di non essere stata capace di farle vivere?
È stato un lungo percorso di accettazione.
A me, che ero già mamma di altre due figlie vive, era ulteriormente negato il diritto di soffrire: “Vabbé, due figlie vive le hai, di che ti lamenti?”
Mi montava una tale rabbia di fronte ad esternazioni del genere!
Finché ho compreso che gli altri non sono da combattere: sono da informare.
Gli altri non possono capire, perfino io avevo combattuto con quella parte di me che avrebbe preferito negare l’evidenza.
È questa la ragione per cui scrivo di me, della nostra esperienza: per informare, svelare ciò che è e sta intorno all’aborto.
Perché occorre che avvengano delle modifiche culturali, occorre che si attivino altre reazioni di fronte a famiglie che perdono i loro figli durante l’attesa.
I numeri, le statistiche ci dicono che il 30% delle gravidanze esita in un lutto. Sono numeri enormi, sono migliaia di famiglie ogni anno che si ritrovano mutilate. Private di elementi fondamentali, private di sogni, aspettative, private dei loro figli. Sono migliaia le famiglie che devono trovare in loro le risorse per immaginarsi diverse, per rinunciare alla forma che avrebbero desiderato raggiungere. Migliaia di famiglie devono imparare a vivere senza.
Fa impressione constatare che l’aborto è tale da sempre, ma da sempre è ignorato: perché?
Quale che sia la risposta, ciò che occorre fare oggi è cominciare ad occuparcene, perché oggi si è maturata una certa attenzione per la salute, non solo fisica, non solo individuale, ma anche psicologica e collettiva. Una società sana è composta da famiglie sane.
Chi si occupa della salute delle famiglie non può ignorare le ripercussioni che l’aborto ha sulla famiglia intera, sul modo di essere genitori, sui fratelli (sia quelli che già ci sono che quelli che potrebbero arrivare) e nella coppia.
La perdita di un figlio è qualcosa di devastante e nella maggior parte dei casi non è evitabile. Tuttavia è possibile agevolare il processo di elaborazione per i genitori: una certa attenzione per le parole, le modalità, le procedure, l’informazione e il sostegno sarebbero già di respiro.
Invece oggi i figli morti in grembo non sono nemmeno definiti figli, ma scarti. Quei figli non sono partoriti, ma espulsi. Quelle donne non sono mamme, ma mef.
Raramente siamo informati dell’opportunità di dare ai nostri figli un nome e sepoltura. Spesso ci è impedito di essere i loro genitori e poter fare per loro le sole cose che ci restano da fare.
Una volta usciti dall’ospedale il capitolo è chiuso: “Fatene un altro e non pensateci più!”
C’è un grande lavoro da compiere.
Mi sono sentita molto sola dopo i nostri lutti. Sola fra le persone inconsapevoli di cosa fosse questa esperienza, ma sola anche fra coloro che avevano coscienza di cosa fosse.
Avevo come la sensazione che esistesse un muro fra gli uni e gli altri: tra i normali e gli speciali.Alcuni mi definiscono una madre speciale, perché ho due figlie speciali… due figlie morte in verità.
Io non mi sento speciale. Ma speciali sono tutti i miei figli, vivi o morti non fa differenza: loro (per me) sono speciali semplicemente perché sono i miei.
Aspiro ad essere considerata una madre normale, una mamma fra mamme…
Non mi piacciono i muri… le definizioni, le etichette. Ci separano, ci allontanano e accrescono l’incomprensione.
Così ho riflettuto su ciò che avrei potuto fare, la mia piccola parte. La goccia nel mare. Quella che insieme a tante altre, fa il mare intero.
Ho pubblicato Questione di biglie, in cui ho raccontato i miei lutti. Tutto. Dall’annuncio, al parto, la sepoltura, le lacrime, l’assenza e la risalita, l’accettazione, la pace.
Perché si può uscire dalla sensazione di lutto.
Il lutto non è per sempre. L’assenza è per sempre.
Ne sono uscita accettando che fossero morte e che questa condizione non fosse rimediabile: la rabbia non me le avrebbe ridate, il dolore nemmeno, prendermela con gli altri che non capivano neppure, un altro figlio neanche.
Non c’era scampo: era così è basta.
A questo punto potevo scegliere che fare: che farmene di questa esperienza?
Beh, questa esperienza mi aveva dato esattamente ciò che andavo cercando: io ero madre.
Io sono la loro madre. Mi tengo questo: l’averle avute. Avere potuto dividere del tempo con loro. Averle fatte vivere attraverso di me.Sai, nessuno lo dice… ma solo chi vive può morire.
Perciò, coloro che definiscono questi figli ‘non nati’ o ‘non vissuti’, sono in errore.
Non occorre respirare per nascere, non occorre venire al mondo per vivere.
Quella nel grembo materno è vita. Uscire dal grembo materno è nascere.
Queste nostre esperienze sono molto della famiglia che siamo: il legame con mio marito è un legame profondo, intimo… noi abbiamo concepito, partorito e seppellito le nostre figlie insieme.
C’eravamo solo noi due, stretti nel dolore.
Abbiamo elaborato in modo diverso i nostri lutti, ma ci siamo tenuti sempre per mano e insieme ci siamo gettati in un altro salto nel vuoto: siamo andati incontro al futuro insieme.
Perché avevamo ancora voglia di vivere: avevamo sogni da sperare, abbastanza coraggio per tentare di realizzarli e abbastanza fiducia da pensare che non sarebbe andata sempre male.Le mie figlie (soprattutto la maggiore) hanno sofferto per la perdita delle sorelle, ma oggi mi vedono impegnata a ‘fare la mia parte’: loro hanno la prova che da un evento terribile, può nascere qualcosa di inaspettato e perfino arricchente.
È vero che non ho controllo sui fatti della vita, ma posso gestire l’impatto che hanno su di me e scegliere di farne ciò che preferisco. Loro sanno che dipende da noi: alla fine dipende dalla volontà che abbiamo, singolarmente, di fare di noi ciò che desideriamo.”
Un’esperienza quella di Erika che non è unica, tante sono le mamme che la vivono e l’hanno vissuta e purtroppo non sono aiutate nel loro percorso.
Già in passato avevamo raccolto le frasi da non dire mai a dei genitori che hanno perso un figlio pubblicate sulla pagina Facebook della onlus CiaoLapo, che aiuta da anni i genitori che durante la gravidanza o subito dopo il parto hanno perso il loro bimbo, perché se non cambia la consapevolezza sul lutto perinatale e su come viene vissuto dai genitori, questi saranno sempre soli, e non è ciò che ci si aspetta da una “società sana”.
E voi unimamme, che ne pensate di questa toccante testimonianza? Cambierà il vostro pensiero sull’impatto sulla vita delle persone di queste perdite? Noi lo speriamo e ringraziamo Erika per essere quella goccia nel mare che può fare la differenza!
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