Ci sono delle esperienze che cambiano la vita per sempre. Una di queste è la perdita di un figlio quando è ancora in pancia o appena nato: non si hanno quasi mai le parole per dar forma a quel dolore. Eppure Michaela K.Bellisario, giornalista di Io Donna, ci è riuscita.
Da poco infatti è stato pubblicato Parlami di lei, il romanzo in cui la protagonista Alex perde una figlia appena nata, esattamente come è successo a lei. Il percorso è difficile, a tratti pesantissimo, eppure il libro vuole dare un messaggio di rinascita e di resilienza. E’ anche grazie a Michaela che ho trovato la forza per lasciare andare il mio bambino. Ecco quello che ha raccontato.
Michaela, è appena trascorsa la Giornata Nazionale del lutto perinatale: secondo te quest’anno, anche grazie al tuo libro, c’è veramente più conoscenza su un argomento così difficile e spesso nascosto come il dolore per la perdita di un figlio?
Credo che si parli sempre e ancora troppo poco di lutto perinatale. Sembra una questione per pochi intimi. Eppure ogni anno, stando ai dati, sono almeno 2500 famiglie che lo subiscono. Ma la ragione c’è: è, per forza di cose, un tema conosciuto solo da chi ne viene colpito o da chi, tra medici e psicologi, è a contatto con genitori “danneggiati”. Chi ne esce, comunque, non desidera spesso più tornarci sopra per ovvi motivi e relega in un anfratto del proprio cuore quell’esperienza di dolore: è l’idea che mi sono fatta con i lettori e le mamme mancate come me che mi scrivono o vengono a seguire le presentazioni di Parlami di lei. Invece bisogna parlarne, quella sofferenza superata va condivisa per incoraggiare chi sta attraversando il suo inferno. È anche per questo che ho scritto il libro: Parlami di lei, appunto. Parliamone.
Alex, la protagonista di Parlami di lei è il tuo alter ego. Perché hai deciso di pensare ad un romanzo invece che ad una storia in prima persona?
In realtà il libro è nato come un memoir, ma poi per vicissitudini legate all’editore (Parlami di lei era stato comprato da Rizzoli in origine e poi è stato pubblicato da Cairo), è diventato un romanzo. Credo che sia stata la scelta giusta. Mi ha permesso di non espormi totalmente in prima persona ma di poter scavare più in profondità all’interno di me stessa e della mia esperienza. In più mi sono sentita più libera di esprimermi, anche a livello creativo senza per forza essere fedele alla cronologia degli eventi. L’importante è il messaggio e la storia vera, personale, che ho voluto portare allo scoperto.
Una cosa che mi ha molto colpito ed emozionato nel tuo libro è la frase della terapeuta che segue Alex dopo la perdita della figlia Martina: “Il lutto si supera vivendo”. Sembra un paradosso, eppure – come dici tu stessa – “la vita va avanti comunque”. Come si raggiunge questa consapevolezza, come si trasforma “il veleno in medicina”?
L’elaborazione del lutto è un lungo percorso di crescita, ma questo lo si capisce solo a posteriori. Dolore e sofferenza sembrano puntellare ogni giornata e pare non esserci mai la parola “fine”. In realtà, la psicologa mi ha fatto capire che questa è semplicemente la vita. C’è un quote buddhista che dice “gioisci quando c’è da gioire, soffri quando c’è da soffrire”: è così. A volte semplicemente ci capitano eventi terribili nella vita solo per farci fare un salto in avanti nella comprensione di quello che siamo. Suona cinico, ma non lo è. Io non sono più la stessa persona che ero prima del parto, sono di più: sono una persona migliore. Sono una persona che ha scoperto la propria forza, una persona che – confrontandosi corpo a corpo con il dolore – ha affrontato un viaggio di resilienza.
Hai mai pensato all’adozione dopo la perdita di tua figlia?
Sì, naturalmente. Abbiamo pensato soprattutto all’affido quando un’amica ci ha parlato di una bambina bielorussa: era bionda e bellissima. Ma poi come coppia non siamo riusciti a portare avanti il progetto perché insieme ci siamo sgretolati. Nel libro Alexandra e Andrea non riescono a parlare della morte della figlia insieme. Semplicemente perché il lutto lo vivono in modo diverso e non riescono più a trovare la forza per reagire come moglie e marito. In quelle condizioni di dolore pensare di dare amore a un’altra bambina ci è sembrato come scalare l’Everest: eravamo troppo danneggiati per uscire da noi stessi.
La pagina pubblica del libro su Facebook sta ricevendo tante testimonianze, sia pubbliche sia private. Che cosa ti dicono le donne che ti scrivono e c’è un filo conduttore nei loro racconti?
Molte mamme mi dicono: “Grazie per il libro, è come se avessi parlato di mio figlio”. Una donna mi ha scritto: “Ho letto Parlami di lei dopo il lavoro, ogni sera, e per molte sere è stata la mia culla. Non riuscivo a separarmene, ora è fisso sul mio comodino. Ogni tanto ne leggo una pagina e mi rincuora”.
Quello che mi colpisce è che questi lutti ce li portiamo dentro e poi li accantoniamo per riuscire a vivere. Ma non li dimentichiamo mai. Trovare la forza e il coraggio per parlarne, cercando soluzioni positive nella vita, è un antidoto che cerco di trasmettere invece. Bisogna chiuderlo il cerchio.
Un grosso problema è quello della comunicazione dell’evento tragico da parte degli operatori sanitari; d’altronde di aborto o di lutto non si parla mai, a partire dai corsi pre parto. Secondo te cosa si dovrebbe fare?
Ne ho parlato con la psicologa che mi aveva seguito all’epoca lamentandomi proprio di questo limite. I corsi preparto, come ho scritto nel libro, sono davvero corsi “magici” dove tutto è candy – candy. E quando ti accade l’irreparabile caschi dalla tua nuvola rosa. “Non possiamo prevedere le emozioni e non possiamo programmare i parti”, mi ha risposto. “Ogni evento è a sé, ognuna di noi ha il proprio destino e non servirebbe a niente terrorizzare psicologicamente le future mamme, soprattutto se poi tutto va bene”. Forse, per certi versi, ha ragione. Ma un pizzico in più di accompagnamento psicologico non guasterebbe.
Parlami di lei trasmette una grande voglia di vivere, nonostante il percorso doloroso e molto duro. È tra l’altro dedicato a Francesca Del Rosso, che tutti in rete conoscono come Wondy, giornalista e donna resiliente, che se n’è andata quasi un anno fa dopo un tumore al seno. C’è qualcosa di lei nel tuo libro?
È stato grazie a lei se oggi ho potuto scrivere il libro. Dopo l’uscita del suo memoir Wondy, ovvero come si diventa supereroi per guarire dal cancro, un pomeriggio mi ha invitata a casa sua e mi ha fatto vedere le bozze del libro. “Ora tocca a te, devi raccontare la tua esperienza”, mi ha detto. Lei era super attiva, organizzava incontri con le sue lettrici senza mai arretrare di un passo o cedere al vittimismo. Ho dedicato il libro alla sua memoria. In Parlami di lei la cito, comunque: mi aveva suggerito il corso di acquaticità dopo il parto. Un’esperienza difficile per lei che aveva raccontato in Mia figlia è una jena, ma che suggeriva a tutte le mamme per creare un legame ancora più profondo con le nostre bambine.
E voi unimamme cosa ne pensate?
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