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“I miei 88 giorni a letto aspettando di partorire”: il racconto di una mamma

Published by
Valentina Colmi

Ci sono certe gravidanze a rischio che purtroppo sono particolarmente impegnative, sia dal punto di vista fisico, sia da quello mentale. Può infatti capitare che per svariati motivi si debba rimanere a letto per la maggior parte della gestazione, perché si rischia di perdere il bambino.

E’ quello che è capitato a una mamma inglese che ha voluto raccontare cosa si prova a rimanere distesa per non far nascere il bambino prima del tempo.

Gravidanza a rischio: donna passa 88 giorni a letto per non partorire prematuramente

Katherine Heiny, una scrittrice inglese, che ha raccontato su The Guardian l'”avventura” che ha vissuto nel 2001 quando aspettava il suo primo figlio.

Un resoconto molto dettagliato in cui la donna fa capire molto bene che cosa ha provato in quegli 88 giorni.

Era appunto il 2000 e Katherine era una donna sana che stava aspettando il primo figlio. Un giorno – “mentre mio marito si trovava di sotto per preparare gli hamburger” – alzandosi in piedi ha sentito un liquido caldo che le bagnava i pantaloni: ha guardato verso il basso e si aspettava di vedere del sangue, invece era liquido. In sostanza le si erano rotte le acque, solo che era solo alla 26esima settimana. 

Lei e suo marito sono andati di corsa in ospedale e – dopo essere stata sottoposta ad alcuni test per verificare se ci fossero infezioni in atto, – è stata messa a letto in una posizione chiamata “Trendelenburg”, ovvero il letto era inclinato in modo tale che la testa fosse di 20 gradi più in basso dei piedi. Si tratta di una posizione conosciuta anche come “anti-shock”.

I due pericoli maggiori di essere una Prom, ovvero una rottura anticipata delle acque, erano:

  • un parto molto prematuro (mancavano ancora 3 mesi)
  • la “corioamnionite”, un’infezione fatale per il feto e che colpisce il sacco amniotico.

E’ iniziato così il suo periodo in ospedale, circa un mese, in cui ogni giorno guadagnato era una speranza in più per il suo bambino. Durante il ricovero le hanno somministrato dei farmaci per far sviluppare i polmoni del bambino e praticamente non si poteva alzare dal letto, neanche per andare in bagno e mantenere una posizione sul fianco, per non sollecitare la vena cava.

La cosa peggiore era il coinvolgimento delle altre persone. Dover chiedere ad altri di portarti la padella, avere una conversazione mentre la stai usando, scusarsi perché non l’hai usata proprio bene e adesso c’è una macchia umida sulle lenzuola, chiedere all’infermiera di pulirti ancora perché ti senti bagnata e appiccicosa, dover ringraziare quella persona e tu le sei veramente grata, anche se fino a due ore prima eri una persona con una dignità e adesso no”. 

Quando il ginecologo – da lei soprannominato “Doggie B.” per via della sua espressione da cane bastonato – è arrivato in ospedale le ha preannunciato che l’idea era quella di provare a far nascere il bambino a 33 settimane. Katherine avrebbe voluto provare ad arrivare al termine, il 10 maggio.

Il neonatologo – che invece non era molto simpatico e che parlava per percentuali – che le aveva spiegato al momento del ricovero che le probabilità di sopravvivenza di un bambino nato prematuro a 26 settimane erano del 50%, tornato il giorno dopo le ha spiegato che in genere il 95% partorisce ad una settimana dalla rottura delle acque, il 5% dopo due settimane e solo l’1% delle Prom arriva a termine.

Durante la degenza in ospedale Katherine poteva fare ben poche cose visto che praticamente viveva inclinata:  “Non potevo scrivere, invece leggevo. Costantemente. Incessantemente. Dovevo tenere il libro aperto di fronte a me che ero sdraiata di lato, come qualcuno che stringesse un volante. Mio marito mi comprava i libri e io li tenevo accatastati sul tavolino sopra il mio letto, così quando ne leggevo uno, potevo tenere il prossimo nella mano libera, con il mio dito che segnava l’inizio del primo capitolo, in modo che quando finivo un libro potevo immediatamente iniziarne un altro. Ho letto decine di libri in ospedale, ma me ne ricordo solo uno”. Il libro in questione era il libro di Steven Callahan, Adrift, in cui l’autore scriveva di come era sopravvissuto 76 giorni su una zattera gonfiabile dopo che la sua barca era affondata. “Potevo farcela anch’io” si è quindi detta questa mamma.

Dopo due settimane senza ancora nessun segno di travaglio, per fortuna, il ginecologo le ha dato il permesso di potersi alzare per fare una doccia: purtroppo il liquido amniotico si è riversato sul pavimento.

La rottura delle membrane è considerata prolungata e pericolosa se passano più di 24 ore tra la rottura del sacco e l’inizio del travaglio: le mia acque si erano rotte più di 300 ore prima. Il rischio di sepsi era molto elevato” racconta questa donna.

Dopo 25 giorni, finalmente, alzandosi in piedi non ha più avuto perdite e il ginecologo le ha dato il permesso di tornare a casa: “ero in quell’1%“.

“Stavo ancora nel letto per tutta la giornata, eccetto 15 minuti al giorno per due volte: una doccia la mattina e la cena”.

Le settimane passavano e la gravidanza è riuscita – miracolosamente – ad arrivare quasi al termine. “ero certa che mio figlio sarebbe nato il 21 aprile, lo stesso giorno in cui Steven Callahan è stato salvato. Il 21 aprile è arrivato ed è passato. E un giorno mi sono svegliata per fare la solita doccia e ho sentito il liquido amniotico che scorreva lungo la mia gamba. Le mie acque si sono rotte per l’ultima volta” .  Angus, il figlio di Katherine, è nato 12 ore dopo.

Oggi il figlio ha 17 anni e sta bene. Però questa mamma ammette che ciò che ha vissuto l’ha accompagnata per diverso tempo.

Molte poche esperienze trasformano il tuo modo di vedere il mondo e te stessa, ma il riposo a letto lo ha fatto con me. Ho superato aspettative impensabili.”

“L’accecante, il paralizzante terrore dell’ospedale è dietro di me, ma mi ha accompagnato per un lungo periodo”.

Nonostante la gravidanza sia finita bene, non è stato semplice ritornare alla normalità:

Un giorno, quando Angus aveva 3 anni, ho pulito un armadio e inaspettatamente ho trovato la brocca di plastica dove bevevo l’acqua in ospedale, mentre ero a letto. In un istante, la luce nella mia testa si è spenta e ho visto tutto in bianco e nero. Ero certa che mio figlio fosse in pericolo, così certa che sono corsa in bagno e ho vomitato. Non so perché questo mi avesse sorpreso o perché pensavo che avrei avuto una reazione differente, immune agli effetti successivi del mio calvario. Tutti i sopravvissuti hanno delle cicatrici“. 

E voi unimamme cosa ne pensate? Sicuramente una storia che fa riflettere e nella quale molte mamme si possono ritrovare? E voi ne avete avuta una simile?

Intanto vi lasciamo con il post che parla di una cura rivoluzionaria: la placenta artificiale per i neonati prematuri. 

Valentina Colmi

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