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“Episiotomie a tradimento”: un’ostetrica fa coming out

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Redazione Universo Mamma

Care uniamme, recentemente vi abbiamo parlato dei dati scioccanti emersi dallo studio Doxa sulla Violenza ostetrica, intesa come violenza fisica o psichica, e secondo il quale 1 donna su 5 ha subito una forma di violenza durante il parto.

Violenza ostetrica: con la corretta comunicazione in emergenza e le “donne al centro” la si previene

Tra le varie pratiche imposte e denunciate dalle mamme, c’è l’episiotomia e soprattutto quella fatta “a tradimento”, ossia senza comunicarlo alle donne. Ed è dalla mancanza di comunicazione, di ascolto che nasce il problema.

Purtroppo l’indagine, che voleva sortire come effetto quello di ripensare le modalità del parto e del travaglio soprattutto da parte degli operatori sanitari, mettendo le “donne al centro”, ha avuto diverse reazioni.

C’è chi ha preso posizione, difendendo l’operato di medici, ostetriche e infermiere, e c’è chi invece ha deciso di mettersi dalla parte delle mamme, delle donne.

Anna Maria Rossetti ha scelto la seconda: lei è un’ostetrica indipendente ed è direttrice della Scuola ElementaLe di Arte Ostetrica di Firenze. Si tratta di una scuola che organizza corsi di formazioni post laurea e specialistica alle ostetriche.

In un post su Facebook ha infatti scritto:

Di episiotomia, di emergenze e di parole che non si trovano
Di Anna Maria Rossetti

Sento che la spiegazione maggiore degli operatori della nascita che rispondono alla denuncia di “episiotomie a tradimento” da parte delle donne non avvisate di cosa stessero subendo, è che “in emergenza non sempre si ha tempo e modo di comunicare, ma è consigliabile”.

Da ostetrica che ha chiara cosa sia un’emergenza e che ha praticato episiotomie mi sento di fare coming out:

Se veramente il grado di emergenza-che-rende-impossibile-comunicare-con-la-donna fosse la motivazione del 54% di episiotomie a tradimento denunciate dalle donne italiane, vorrebbe dire che abbiamo una salute nazionale nella maternità peggiore che nell’ Afghanistan rurale, dove il tasso di emergenze ostetriche, molto alto, è in linea con una delle mortalità materne e neonatali più alte al mondo.
Il fatto che molte colleghe, anche amiche-colleghe che stimo e a cui voglio bene, dichiarino che “è vero in emergenza non si riesce spesso a comunicare una procedura, quindi la si fa e la si spiega dopo” mi fa pensare che abbiamo bisogno di spostarci da questa posizione facendo dei passi avanti, analizzando la questione, secondo me vitale per la nostra professione, della formazione nella gestione delle emergenze o pseudo-emergenze nelle nostre realtà lavorative. Di base spesso manca una formazione specifica alla COMUNICAZIONE IN EMERGENZA.

Non basta essere empatiche e genuinamente gentili e disposte all’ascolto per saper comunicare; queste doti sono fondamentali per intraprendere la nostra professione e doni preziosi in chi le ha più spiccate, ma non implica possedere alcuna tecnica di comunicazione per le situazioni critiche né tanto meno per le emergenze. Tradotto: si può essere professionisti senza essere professionisti della comunicazione ed è lì il trappolone: che nessuno ce l’ha detto.
Prima di tutto bisogna essere motivate a comunicare in emergenza: cioè riconoscere che l’emergenza fisica che stanno vivendo madre e bambino va di pari passo con l’emergenza psichica che stanno vivendo e che si porteranno a casa, insoluta, se l’unica cosa di cui gli operatori si sono occupati è l’emergenza fisica. Susanne Hood, ostetrica, formatrice, collaboratrice OMS e autrice del libro “Emergenze ostetriche” parla molto bene delle due emergenze parallele che si svolgono in una sala parto quando scatta l’emergenza. Ci sono diversi elementi, oltre alla motivazione, che permettono una corretta comunicazione anche in emergenza: bisogna sapere che se non abbiamo chiare le tecniche di comunicazione in setting a basso o medio stress, non ci calerà certo dall’alto la perfetta tecnica di comunicazione durante un’ emergenza, sotto altissimo stress, quando tutti noi, presi da paura, fretta, affastellarsi di emozioni, diamo umanamente il peggio di noi. L’emozione dell’emergenza ci smutanda, sappiamolo. La comunicazione in emergenza vive di tecniche e regole riproducibili, utilizzate e sperimentate da chi della risoluzione di emergenze vive (soccorritori professionisti, 118, vigili del fuoco) ma l’emergenza, oltre a disvelare il nostro poco o assente training in comunicazione d’emergenza, smaschera l’equipe, le falle dei ruoli e delle gerarchie: serve ordine per gestire l’emergenza fisica, ne serve ancora di più per gestire al contempo quella psichica di chi è nei guai. Serve guardare negli occhi la donna quando le si parla: la perdita del contatto visivo è la prima cosa che riporta chi è stata vittima primaria di un’emergenza ostetrica, a un certo punto la donna, se prima era soggetto dell’assistenza (cosa da non dare per scontata) “non esiste più”, esistono solo cose da fare, e in fretta, su di lei.

Torniamo alla motivazione, un punto che per me è stato ILLUMINANTE come ostetrica: è stato sperimentato, descritto e dimostrato che “sprecare del tempo” a comunicare con la donna durante un’emergenza ostetrica, attivandola, dandole strumenti per cooperare con l’evento, palesandole il suo ruolo e quello dell’operatore nel fare cosa, RIDUCE I TEMPI DI RISOLUZIONE DELL’EMERGENZA. Quindi comunicare e farlo bene, non è solo “consigliabile” è UNA TECNICA DI RISOLUZIONE dell’emergenza stessa. Quello che mi avevano insegnato a dire alle donne invece, mentre l’adrenalina sale, la stanza si riempie di operatori che corrono, alzano la voce, nessuno che si rivolga alla donna o al contrario TUTTI che si rivolgono a lei contemporaneamente creando il caos è “Stai tranquilla”: una perversione, nessun primate lo crederebbe possibile, né chi lo dice né chi lo sente. Analizziamo la frase: “Va tutto bene solo che ora dobbiamo fare in fretta”. Stiamo commettendo i tre classici errori della comunicazione in emergenza: stiamo mentendo (1°) dicendo che va tutto bene, stiamo omettendo (2°) cosa accade, stiamo passivizzando la donna (3°). L’effetto è di spaventarla ancora di più. Allora qualcuno penserà: “eh brava Rossetti, che le dobbiamo dire? Panica bella! MORIREMO TUTTI!”? No. Bisogna studiare prima, esercitarsi, perfezionarsi nel sapere COSA e COME dire per sposare gli obiettivi della comunicazione d’emergenza: 
1. Non mentire: rendere legittimo provare paura è accettare che la paura sia un’emozione congrua rispetto a quello che sta capitando. E’ giusto e umano. Non eviteremo la paura in un evento pauroso, ma possiamo evitare il panico. Per evitare il panico leggere gli altri obiettivi.
2. Spiegare cosa accade è indispensabile per contenere la paura. Mi spiego: se non so cosa accade, in quel vuoto la mia mente crea un fantasma, si figura un mostro, tutto vale e il fatto che i professionisti che ho davanti NON SIANO IN GRADO DI NOMINARLO me la dice lunga sulla loro paura, sul loro panico, mi sentirò in balìa di una tragedia. Invece se so cosa accade, per quanto spaventoso, l’evento traumatico è delineato, ha un profilo e lo si può nominare, quindi affrontare, quindi gestire
3. Attivare la donna. Fondamentale per motivi psichici e pratici come vedremo.
Io ho imparato a dire, guardando la donna negli occhi, con parole comprensibili ad un treenne, esattamente cosa accade. Non che la donna sia una treenne in quel momento, ma è una tecnica comunicativa dell’emergenza: esercitarsi a epurare la propria comunicazione da frasi difficili, parole inutili, parafrasi condite di fronzoli e distillarla in quei tre concetti fondamentali su cui conscio e inconscio, sistema neurovegetativo e limbico non si possano confondere: Cosa accade? “La testa del tuo bambino è uscita bene (sempre prima la buona notizia) ma le spalle sono rimaste dentro. Quindi ora IO entro con un dito a toccare le spalle del bambino e POI ti DICO COSA puoi FARE TU per aiutarlo e cosa posso fare io per aiutarvi” (pausa) “Bene, ecco le spalle, ORA Muoviti così e cosà mentre IO faccio quest’altro. Hai capito?” Capita che le donne dicano a quel punto “ho paura” “ma il mio bambino come sta?” e non bisogna sminuire né mentire ma sempre dare risorse, esercitarsi a dare risposte immediate, pronte, chiare a seconda del grado di gravità: “Lo so che hai paura, lo facciamo insieme ok?” oppure “il tuo bambino ORA sta bene ma ha bisogno di essere aiutato da te e me/noi ORA, lo facciamo insieme ok?” oppure “il tuo bambino comincia a stare poco bene, per stare bene deve nascere, abbiamo tempo per aiutarlo bene”.

Le parole vanno esercitate. Gli occhi negli occhi vanno esercitati. Pensiamo a tutte le emergenze che conosciamo e pensiamo a come le spiegheremmo a un treenne: “La placenta è uscita bene (sempre prima la buona notizia) ma stai sanguinando molto. Ora tu puoi aiutarti massaggiandoti qui/attaccando il bambino al seno/ecc.. mentre io chiamo aiuto/ ti do un farmaco/ecc”. Oppure ancora “Il bambino sta per nascere bene (sempre il bicchiere mezzo pieno) ma il suo cuore rallenta. Lo senti? Ecco: vuol dire che deve nascere svelto. Tu fai questo, io posso aiutarlo così e cosà. Hai capito?” eventualmente far ripetere alla donna cosa ha capito. Le donne ci sorprenderanno, pur nella paura, pur nel bisogno.

Anche solo leggere questa sequenza ci attiva l’emergenza emotiva, è fisiologico, è umano, riconosciamolo e studiamo e saremo già non uno ma due passi avanti. Quando facciamo le simulazioni ci impiegano sempre un po’ le ostetriche a trovare le parole giuste da dire: chiare, dirette e ripetibili per passare un messaggio: accade questo, tu devi fare questa cosa, io quest’altra, lo facciamo insieme adesso. E’ difficile smettere di dire “un pochino, un attimino” tutte le attenuanti alla paura che il nostro inconscio attua per cercare di far fessa la paura materna e non spaventare la donna “il tuo bambino sta un pochino soffrendo, ti stai un attimino dissanguando” sentite come non regge? Eliminiamoli. Rimaniamo sul pezzo. E se la donna chiede “Cosa??” non è perché è sorda. E’ perché ha bisogno che quelle poche, chiare, coincise, pacate parole le siano ripetute, UGUALI, nella STESSA SEQUENZA guardandola sempre in faccia e astenendosi nel frattempo dal manipolarle il corpo o almeno i genitali. Ci vogliono 30 secondi. Li recupererete, nella risoluzione dell’emergenza, grazie all’attivazione della donna. Questo tema è più difficile se non parliamo la stessa lingua della donna, dovremo allora rifarci al linguaggio non verbale ma sicuramente con risultati meno efficaci.

Quando ero una giovane ostetrica, nelle emergenze entravo in sala parto: tutti parlavano tra loro per dirsi cosa fare e facevano qualcosa, come succede nelle emergenze, ma a volte, per quelle azioni salva vita in cui non si poteva dare alla donna nulla da fare, questa veniva ignorata. Nella mia poca esperienza clinica spesso non sapevo dove mettermi e così ho cominciato a mettermi dalla parte della donna. Quando tutta l’attenzione degli operatori si concentra su un’area della persona dalla vita in giù, qualcuno che si occupi di quello che accade dal collo in su è vitale per l’emergenza psichica. A lato della donna, mi presentavo dicendole il mio nome, le chiedevo il suo (o la chiamavo per nome se lo sapevo) e poi la orientavo, con calma, come se fosse previsto che una persona fosse lì per quell’emergenza. In effetti sarebbe previsto. Se l’ostetrica o il medico non riescono o pensano di non riuscire a comunicare con la donna in emergenza possono dirle: “ora farò fatica a parlarti perché devo concentrarmi a capire questa cosa ma tu guarda lei (chiamando la persona per nome), ascolta quello che ti dice (nome)” indicando una persona a cui la donna possa fare riferimento. La donna può essere guidata passo passo nella comprensione “quando si sanguina tanto si può fermare il sanguinamento con una pressione sulla pancia, la senti? A volte rimane della placenta in utero e si può togliere con delicatezza con uno strumento che non fa male, tu dimmi come ti senti, se hai freddo ti copro, ecc…”

Il concetto di conforto: lo so che in quel momento l’operatore sta pensando “moriremo tutti e io andrò in galera” ma, proprio perché non lavoriamo nell’Afghanistan rurale, è raro che si muoia di parto o nascendo. Non impossibile, sappiamo che la morte è sempre nostra compagna lavorando con la vita, ma statisticamente, fortunatamente, è più probabile sopravvivere. Quindi mentre spieghiamo alla donna la procedura di emergenza per salvare lei o il suo bambino o entrambi, non è “mentire” o “esporsi a promesse con sequele medico-legali” dirle “Andrà tutto bene”, è umano, è doveroso, dobbiamo crederci anche noi perché è per questo che stiamo operando. Se non ci crediamo noi stessi, la donna vivrà un senso di morte imminente unito alla paura dell’emergenza che peggiorerà l’emergenza psichica e i suoi esiti a lungo termine. “Certo che ce la farai, certo che andrà tutto bene, certo che fa paura, ma ti aiuto, sono/siamo con te, facciamolo insieme” sono tutti messaggi che mettono in campo la nostra capacità di stare lì con la donna in un momento in cui vorremmo essere dall’altra parte del mondo con un crodino.

E’ difficile ma credo sia questo che le donne si aspettano dalle professioniste dell’assistenza alla nascita. Anche questo. Impiegheremo tutta una vita ad allenare la nostra alta professionalità, lo sappiamo, ma mi sento di dire che iniziare proprio da ciò che ci è difficile, scomodo e ci fa paura è il miglior modo di dimostrare dedizione verso la professione che abbiamo scelto. Sono quasi sicura che nel momento in cui decideremo di affrontare le nostre paure, il nostro sudore, il limiti della nostra comunicazione verbale e non verbale, quando ci metteremo allo specchio a provare le intonazioni diverse con cui pronunciare le frasi in emergenza per poi sperimentarle in simulazioni con le colleghe, ecco sono quasi sicura che Lucina, dall’alto dei cieli, ci guarderà con orgoglio e benevolenza, sorseggiando compiaciuta il suo crodino.

E voi unimamme, che ne pensate delle parole di questa ostetrica? Pensate anche voi che occorra ripartire dalla formazione degli operatori?

Redazione Universo Mamma

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