Una volta, quando lavoravo per un giornale locale, sono andata in carcere per una conferenza stampa che riguardava un progetto di centro estivo per i figli dei dipendenti. C’erano un orto, dei grandi saloni colorati, ampi spazi. Eppure bastava guardarsi attorno per capire che ci si trovava comunque in una realtà particolare. Si dovevano fare solo pochi passi per vedere le sbarre alle finestre e gli agenti di polizia penitenziaria. In altre parole, ci si ricordava sempre dove ci si trovasse.
Immagino quale possa essere lo stato d’animo di bambini piccoli che invece in carcere devono starci: hanno dagli 0 ai 6 anni e si ritrovano, pur ovviamente senza colpa, a dover vivere il regime insieme alle madri.
E’ una scelta della mamma quella di poter portare il proprio figlio con sé, anche se ovviamente si tratta di una decisione controversa: un bambino ha di certo il diritto di non crescere lontano da un genitore, ma nei primi anni di vita avere un tipo di quotidianità così diversa può certamente segnare. Il punto è che le mamme spesso non hanno alternative.
Per esempio non possono uscire dalle strutture che li ospitano: la più grande in Italia è «Germana Stefanini», uno dei più attrezzati e meglio tenuti, mentre a Milano c’è uno degli Icam più frequentati. In questo caso si tratta di Istituti a custodia attenuata per madri detenute dove gli spazi sono più grandi e le guardie carcerarie sono vestite in borghese.
Poco tempo fa un servizio de “Le Iene” e un reportage del Corriere della Sera hanno evidenziato una situazione drammatica: sono circa 60 i bambini detenuti e i vari Ministri della Giustizia che si sono succeduti hanno dichiarato che avrebbero risolto un problema davvero spaventoso. Risultati? Nessuno, almeno fino ad oggi.
Purtroppo spesso queste mamme non hanno altra scelta: i papà sono assenti perché sono a loro in carcere e non hanno nessuno a cui affidare i bambini. Spesso questi piccolini si chiedono perché non possono uscire, se hanno fatto qualcosa di male o vivono con angoscia il momento in cui le porte – che durante il giorno sono aperte – vengono chiuse.
“I bambini qui diventano aggressivi, non hanno relazioni sociali. Tra l’altro vedono solo donne e manca del tutto una figura maschile” racconta una mamma al Corriere.
Nel caso dell’Icam i bambini possono uscire alcuni pomeriggi a settimana grazie a delle volontarie, mentre allo Stefanini la gita è il sabato e avviene grazie all’associazione “A Roma insieme”, di cui vi abbiamo parlato in passato.
“Subiscono una metamorfosi quando devono risalire sul pullman per il ritorno. Non è solo per la fine di una giornata di giochi, come fanno tutti i bambini. Associano l’imbrunire con la chiusura delle celle e s’intristiscono. Qualcuno piange, sbatte la manina sul vetro dell’autobus“ si legge nell’articolo de Il Corriere.
E una volta che ritornano in carcere, non vanno dalle loro madri, ma restano attaccati ai volontari.
La volontà di non tornare è più forte, anche se ancora non se ne rendono conto: “Come quel giorno in cui capitò che un agente lasciò una chiave sul tavolo. Uno dei bimbi la prese e corse dalla mamma: «Mamma, vieni, ti porto fuori, ci sono un sacco di cose belle“.
E voi unimamme cosa ne pensate?
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