I traumi subiti nella prima infanzia possono scatenare malattie mentali. Questa era una circostanza nota, non era noto ancora che si potessero tramandare di generazione in generazione. È quello che ha accertato uno studio condotto dai ricercatori dell’Istituto Nazionale della Salute, Università di Uppsala in Svezia e l’Università di Helsinki in Finlandia. Lo studio è stato pubblicato su JAMA Psychiatry, il titolo è “Association of the World War II Finnish Evacuation of Children With Psychiatric Hospitalization in the Next Generation”, “Il legame tra l’evacuazione dei bambini finlandesi durante la Seconda guerra mondiale e l’ospedalizzazione pediatrica nella nuova generazione“.
Lo studio svedese e finlandese ha preso in esame gli adulti figli di persone evacuate dalla Finlandia quando ancora erano bambini durante la Seconda guerra mondiale.
I ricercatori hanno scoperto che le figlie di donne sfollate avevano lo stesso rischio di disturbi di salute mentale delle loro madri, anche se non avevano sperimentato le stesse avversità.
Lo studio, però, non è stato in grado di stabilire perché il rischio più alto di malattia mentale continuasse a persistere attraverso le generazioni.
Alcune possibili spiegazioni riguardano i cambiamenti nel comportamento genitoriale degli evacuati derivanti dalla loro esperienza nell’infanzia o dai cambiamenti epigenetici (alterazioni chimiche nell’espressione genica, senza modifiche al DNA sottostante).
Uno degli autori dello studio, Stephen Gilman (Sc.D., del Division of Intramural Population Health Research all’Eunice Kennedy Shriver National Institute of Child Health and Human Development), ha spiegato che “molti studi hanno mostrato che l’esposizione ai traumi durante la gravidanza può avere effetti negativi sulla prole“. In questo studio, invece, i ricercatori “hanno trovato prove che l’esposizione al trauma durante l’infanzia di una madre – in questo caso la separazione dalla famiglia durante la guerra – può avere conseguenze a lungo termine sulla salute delle sue figlie“.
I fatti riguardano l’evacuazione di circa 49.000 bambini finlandesi dal 1941 al 1945, negli anni della Seconda guerra mondiale, quando la Finlandia era in guerra con la vicina Unione Sovietica. I bambini erano stati allontanati dalle loro case per proteggerli dai bombardamenti, dalla malnutrizione e dagli altri pericoli della guerra. L’evacuazione, tuttavia, così come il loro ritorno, furono gestiti senza tenere conto dello shock e dei conseguenti traumi che questi allontanamenti improvvisi da casa, senza i genitori, avrebbero potuto provocare nei bambini. All’epoca non si andava molto per il sottile in queste situazioni e l’evacuazione era stata concepita proprio per proteggere i più piccoli.
I bambini sfollati, molti di loro in età prescolare, furono inviati in Svezia, affidati a delle famiglie. Per i bambini finlandesi, tuttavia, allo stress dell’allontanamento da casa e dagli affetti si aggiungeva anche quello i doversi adattare alle nuove famiglie affidatarie e in molti casi dover imparare una nuova lingua. Al ritorno in patria, poi, molti bambini hanno sperimentato uno stress aggiuntivo dovuto al doversi riadattare alla società finlandese.
Durante la guerra, tuttavia, molte famiglie scelsero di non evacuare tutti i loro figli e di tenerne alcuni in casa con loro. Questa circostanza ha indotto i ricercatori a confrontare il rischio di ospedalizzazione per un disturbo psichiatrico tra i figli degli sfollati e i fratelli rimasti a casa con i genitori.
Lo studio dei due gruppi, formati da cugini, ha consentito ai ricercatori di tenere conto dei fattori familiari che possono contribuire ai problemi di salute mentale e concentrarsi invece sull’esperienza di guerra degli evacuati.
In un precedente studio i ricercatori avevano scoperto che le donne sfollate da bambine avevano più del doppio delle possibilità di venire ricoverate in ospedale per un disturbo psichiatrico rispetto alle loro sorelle che erano rimaste a casa. Un dato significativo.
Per lo studio corrente, i ricercatori hanno collegato i dati di questa generazione, più di 46.000 fratelli nati tra il 1933 e il 1944, a quelli della loro prole, più di 93.000 individui nati dopo il 1950. Di questi, quasi 3.000 erano figli di genitori che erano sono stati evacuati in Svezia da bambini durante la Seconda guerra mondale, mentre più di 90.000 erano figli di genitori rimasti in Finlandia durante la guerra.
I ricercatori hanno scoperto che le donne che erano state evacuate da bambine e le loro figlie correvano il rischio più alto di essere ospedalizzate per disturbi all’umore, come la depressione e il disturbo bipolare.
In particolare le figlie delle sfollate avevano più di 4 volte il rischio di ospedalizzazione per disturbi dell’umore, paragonate alle figlie di madri che erano rimaste a casa, a prescindere dal fatto che le loro madri fossero state ospedalizzate per un disturbo dell’umore.
Invece i ricercatori non hanno riscontrato alcun aumento nelle ospedalizzazioni psichiatriche per i figli e le figlie di uomini che da bambini erano stati sfollati durante la guerra.
Lo studio non ha potuto stabilire il motivo per cui le figlie delle donne sfollate avessero un rischio maggiore di malattia mentale. Una spiegazione può essere che il forte stress subito dalle bambine sfollate abbia intaccato il loro sviluppo psicologico in modo tale da influenzare in seguito il loro comportamento genitoriale.
Un’altra possibilità è che l’esperienza dell’evacuazione abbia portato ad un mutamento epigenetico. I ricercatori hanno citato come esempio una precedente scoperta secondo la quale i sopravvissuti all’Olocausto hanno livelli più alti di componenti noti come gruppi metilici legati al gene FKBP5 e hanno trasmesso questa mutazione ai loro figli. Questi alti livelli di gruppi metilici alterano la produzione di cortisolo, un ormone che regola la risposta allo stress.
I ricercatori hanno concluso che ulteriori studi sono necessari per comprendere come l’esperienza della guerra influenza la salute mentale dei genitori e dei loro figli e per sviluppare interventi per aiutare le famiglie vittime dei conflitti armati.
Di questo studio si è occupata la rivista News Medical.
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