Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, qualche giorno fa, ha concesso la grazia a due uomini che avevano ucciso le proprie mogli malate di Alzheimer.
Uno dei due si chiama Giancarlo Vergelli, 88 anni, condannato a 7 anni ed 8 mesi nel 2016 per avere ucciso la moglie, anche essa 88enne, malata di Alzheimer. Si costituì dicendo alla polizia che “non ce la faceva più” e spiegando di non riuscire a sostenere un repentino aggravamento della malattia della moglie.
L’altro uomo, graziato dal Presidente, si chiama Vitangelo Bini, 89 anni ed ex vigile urbano. Era stato condannato a 6 anni e 6 mesi per l’omicidio della moglie malata di Alzheimer, nel 2007. A lungo Vitangelo aveva assistito in casa la moglie Mara Tani malata da 12 anni di Alzheimer.
Sulla vicenda si è espresso il professor Giovanni Battista Frisoni, neurologo ed esperto di Alzheimer: “Non mi stupisce che un familiare sia tanto disperato da compiere un gesto così estremo“.
Il professore Frisoni incontra gli ammalati e le loro famiglie ogni giorno. E’ il direttore del laboratorio di epidemiologia e neuroimmagine IRCCS al centro San Giovanni di Dio, Fatebenefratelli, di Brescia e del Centro della memoria all’Ospedale Universitario di Ginevra.
In un’intervista riportata dal quotidiano Repubblica, Il professore Frisoni, esperto di Alzheimer, parla delle persone che assistono i malati di Alzheimer, i “caregiver” e della loro disperazione.
L’esperto spiega cos’è che porta alla disperazione chi assiste il malato: “Il non vedere la fine della tragedia. I “caregiver“, cioè le persone che si devono occupare di un malato, lo fanno 24 ore su 24, tutti i giorni e spesso per decine di anni. Non c’è soltanto il dolore di vedere una persona cara disgregarsi a poco a poco, c’è l’angoscia di sapere che a questo declino e a tale sofferenza non c’è scampo. L’essere umano riesce a superare momenti terribili, ma soltanto se intravede la fine dell’emergenza. Molte delle persone che assistono i malati di Alzheimer sono anziane, temono anche di morire prima, intrappolate in un incubo. È drammatico“.
Inoltre, come spiega il professore, i “caregiver” soffrono di una solitudine sociale. I vicini di casa, ma molto spesso anche i parenti non sanno quali sono le difficoltà che chi accudisce un malato deve affrontare tutti i giorni. Frisoni fa un esempio molto semplice, ma efficace: “Faccio un esempio: i vicini di casa vedono il malato che esce con il familiare, il malato saluta, sembra amabile, poi rientra in casa e fa pasticci, non è in sé. Poco prima di parlare con lei sentivo di una mia paziente che, inspiegabilmente ha ostruito il water di casa con delle salviette, allagando l’appartamento e gettando nello sconforto chi l’assiste. Crede che i vicini ne sappiano qualcosa? E ancora, i caregiver si sentono vittime di un martellamento costante, la ripetizione ossessiva di frasi come “Quando usciamo?“, “Quando mi porti a casa mia?” e, naturalmente, si trovano nell’abitazione dove hanno passato gli ultimi 30 anni. Come crede ci si possa sentire?“.
E’ importante aiutare i familiari con della psicoeducazione, per cercare di superare la solitudine sociale: “Nei centri con cui collaboro si fa psicoeducazione sui familiari del paziente. Si creano, tra il malato e il caregiver principale, dinamiche molto complesse. Si crede che i malati di Alzheimer siano aggressivi, ma l’aggressività non è una componente della malattia, deriva dai conflitti che si creano. Una persona che non riesce a ricordare talvolta è rimproverata e reagisce. È indispensabile aiutare i familiari perché capiscano cosa succede al malato, il perché di certi comportamenti e reazioni, ma come si può immaginare è assai difficile“.
Per aiutare una famiglia con un malato di Alzheimer, il professore consiglia di parlare di più della malattia e di aiutare i caregiver a trovare degli spazi per loro stessi: “Intanto, bisognerebbe cominciare a parlarne di più. L’Alzheimer è una malattia male compresa perché fa paura a tutti. C’è poi il problema della sottovalutazione quando i sintomi insorgono in persone in età più avanzata, dove si tende a ritenere che sia una cosa normale a una certa età. Bisogna comprendere che i farmaci possono aiutare il malato soltanto per il 10 per cento, per il resto c’è bisogno di presenza. Un caregiver dovrebbe sempre avere qualcuno che lo aiuti a trovare spazi per sé. Magari anche soltanto un’ora alla settimana, ma ha bisogno di capire che il malato non rappresenta tutta la sua vita. Non serve un approccio da samaritano, a volte basta dire: “Porto tua moglie, o tuo marito, a fare due passi” e lasciare il caregiver da solo“.
Alla fine dell’intervista il professore Frisoni sottolinea l’importanza della prevenzione: ”Bisogna capire che anche se non ci sono farmaci per la guarigione la prevenzione è importante. Bisogna agire prima possibile, non sottovalutare i sintomi anche se si presentano in età avanzata. C’è bisogno di un’alleanza con la società per evitare la stigmatizzazione e per affrontare la malattia nel suo complesso, mettendo al centro le famiglie“.
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