Italia Paese più ignorante d’Europa dopo la Romania: bassi livelli di istruzione e credulità alle fake news.
I dati sull’istruzione in Italia e sull’analfabetismo di ritorno sono impietosi: siamo tra i Paesi più ignoranti del mondo e il più ignorante d’Europa o ce la giochiamo con la Romania, che tuttavia viene da condizioni economiche e sociali molto diverse dalle nostre e dagli strascichi di una dittatura che ancora fa sentire le sue nefaste conseguenze, anche a trent’anni dalla sua fine. L’Italia, invece, è tra i Paesi più industrializzati del mondo e dovrebbe essere tra i primi posti anche per il livello di istruzione dei suoi cittadini. Non è così purtroppo e il già basso numero di laureati invece di aumentare diminuisce, per colpa delle difficili condizioni economiche di molte famiglie e delle tasse che aumentano, non incoraggiando di certo le iscrizioni alle Università. Un quadro fosco, che ci viene restituito impietosamente da statistiche e rapporti, ma che non sembra preoccupare più di tanto cittadini e politici, anzi.
L’Italia ha il minor numero di laureati in Europa, dopo la Romania, e gli iscritti alle università sono in calo al Centro-Sud. Crescono solo al Nord. Colpa anche dell’aumento delle tasse universitarie e di una situazione socio economica che non premia i laureati, anzi. Così in molti si scoraggiano ed evitano di iscriversi all’università.
In Italia, nella popolazione tra i 15 e i 64 anni solo il 16,5% ha un titolo di istruzione terziaria, contro una media UE del 28%, a fronte del 39,6% dell’Irlanda, che ha il tasso di istruzione più elevato, del 38,8% del Regno Unito o del 36,8% di Svizzera e Norvegia. Peggio di noi fa solo la Romania, con il 15,3% della popolazione tra i 15 e i 64 anni con un titolo di istruzione terziaria. I dati vengono dal Dossier Link, Fondazione Open Polis.
Preoccupante il crollo degli iscritti all’università che si è registrato negli ultimi 10 anni: dai circa 1 milione 660mila dell’anno accademico 2008/2009 si è passati ai circa 1 milione e 430mila dell’anno accademico 2017/2018. Una perdita di oltre 200mila iscritti. Il calo maggiore è stato al Sud: da 636.907 a 452.486, con un -28,96%. Gli studenti universitari meridionali una tempo erano la maggioranza degli universitari italiani, nel 2011/2012 c’è stato il sorpasso di quelli del Nord. Gli iscritti alle università al Nord sono gli unici che crescono, del 7,28% – da 581.917 a 624.253 – soprattutto in regioni come Valle d’Aosta (+27,5%), Piemonte (+15,5%), Lombardia (+13,2%), Trentino Alto Adige (+12%), Emilia Romagna (+11,5%) e Veneto (+6,9%). In contro tendenza rispetto al resto del Nord, invece, la Liguria (-6,7%) e soprattutto il Friuli Venezia Giulia (-12,1%).
Gli iscritti alle università nel Centro Italia passano da 440.940 del 2008/2009 al 351.656 del 2017/2018, con un calo del 20,25%. Le regioni che fanno registrare un dato negativo sono:l’Umbria (-13%), la Toscana (-7,7%) e le Marche (-4,8%). Positivi, invece, i dati di Lazio (+3,7%) e Abruzzo (+1,3%).
Al Sud il dato più negativo è quello della Basilicata, con un -26,8% di iscritti all’università. Seguono: Molise (-16%), Sardegna (-14,3%), Sicilia (-13,7%), Puglia (-4,8%) e Calabria (-0,3%). Calano anche i residenti al Sud che si iscrivono alle università del Centro-Nord, che passano dai 12.706 (Centro) e 10.275 (Nord) del 2008/2009 ai 10.323 (Centro) e 11.735 (Nord) dell’anno accademico 2017/2018.
Ad aggravare la situazione ha contribuito senz’altro anche l’aumento delle tasse universitarie, che dal 2008 ad oggi sono cresciute del 18%, proprio negli anni della crisi economica. Tra il 2015 e il 2017 l’importo medio delle tasse universitarie è aumentato di 95 euro, da 1.080 a 1.175. La contribuzione media cresce di più al Nord, ma la differenza si sta riducendo. Senza contare, poi, le spese per i fuori sede, soprattutto per l’affitto che può arrivare fino a 400 e 500 euro al mese per un letto in una stanza condivisa.
Un quadro preoccupante, in un Paese che aveva già un basso livello di istruzione, più vicino a quello di un Paese in via di sviluppo che a quello di uno avanzato come dovrebbe essere l’Italia. La competizione tra Paesi economici avanzati richiede una istruzione sempre più elevata, qualificata e specializzata della popolazione (dal settore umanistico e artistico a quello tecnologico e scientifico), con una formazione e valorizzazione continua dei talenti. A meno che un Paese decida di competere solo per il basso costo del lavoro, adottando in sostanza politiche economiche da Terzo mondo. Una politica economica che, stando ai fatti, sembra essere quella perseguita da qualche anno dall’Italia, senza contare che con alcuni Paesi in via di sviluppo è praticamente impossibile competere in una gara al ribasso dei salari.
La situazione dunque è molto grave, non solo dal punto di vista culturale ma soprattutto da quello economico. La povertà colpisce i più giovani e meno istruiti, come ha dimostrato l’ultimo rapporto annuale della Caritas. Una situazione che, tuttavia, non sembra preoccupare troppo i politici.
Infine, secondo una classifica pubblicata da IPSOS Mori, l’Italia è prima in Europa per l’ignoranza della sua popolazione e la dodicesima nel mondo. La classifica misura l’errata percezione che hanno le popolazioni sui fatti reali: dagli attentati terroristici alla disoccupazione, dal numero di migranti presenti in un Paese alla disinformazione in campo scientifico. Un primo posto che non ci fa onore e al quale andrebbe rimediato con un rafforzamento dell’istruzione scolastica e della formazione continua degli adulti.
“Siamo una società ignorante. E non ce ne vergogniamo. Anzi, ce ne vantiamo pure, come se la cultura fosse roba da signorotti, da élite, da professoroni”, denuncia Giulio Cavalli su TPI News.
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