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Papà assiste per 31 anni il figlio in coma: “era quello che mi sentivo di fare” – FOTO

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Maria Sole Bosaia

Un uomo in coma da 31 anni è morto di recente dopo aver trascorso gran parte della vita assistito dai genitori.

Ignazio Okamoto, madre bresciana e padre messicano, ma di origini giapponesi, aveva solo 22 anni quando, nel lontano 1988, la sera della Festa del Papà, ebbe un terribile incidente da cui non si riprese più.

Uomo in stato vegetativo è morto dopo molti anni

L’uomo, insieme a 4 amici era su un’auto che uscì fuor strada sulla A22 del Brennero.

Uno degli amici morì, mentre Ignazio, detto Cito, entrò in coma e vi rimase per 31 anni, fino a 3 giorni fa quando è morto in casa sua, assistito dal padre Hector e dalla mamma Marisa.

Il figlio era diplomato ragioniere e, all’epoca, aveva appena finito l’anno da militare. Aveva intenzione di aprire un negozio di fotocopiatrici, ma secondo i genitori era molto interessato anche alle nuove tecnologie.

I genitori di Cito hanno deciso di assistere autonomamente il figlio, in casa loro, benché nella loro zona ci fossero numerosi centri a cui rivolgersi.

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Ecco come hanno spiegato la loro decisione: “Per noi non è stata una decisione su cui abbiamo ragionato tanto: pur avendo qui in zona tante strutture che avrebbero potuto accogliere Cito  abbiamo quasi subito voluto che stesse con noi. Era quello che andava fatto, e che mi sentivo di fare”.

Hector ha dovuto lasciare il lavoro per assistere il figlio. “I primi quattro, cinque anni, sono stati duri per l’organizzazione che comportava il suo trasferimento a casa. E’ normale, non serve neanche dirlo: all’inizio abbiamo sempre avuto la speranza che qualcosa cambiasse, che ci fossero dei miglioramenti”.

Hector e Marisa, in questi decenni, si sono dovuti isolare dal mondo per pensare al figlio bisognoso, ma non hanno mai perso veramente i contatti e hanno ricevuto molto aiuto.

“In tanti ci hanno aiutato, anche economicamente, e penso a don Armando Noli e a chi, in tutti questi anni, non ci ha lasciati soli” prosegue papà Hector, citando la sua spiccata capacità di adattamento che gli è venuta in aiuto: “io ho una cultura dell’adattamento a ogni avversità che mi è servita: mio padre era giapponese, si è trasferito in Messico dove si è convertito al cattolicesimo prendendo il nome di Ignacio, che poi ho dato al mio primo figlio. Dal Messico a vent’anni sono venuto in Italia e a Brescia, dove ho conosciuto mia moglie, che è di Collebeato”.

L’uomo ammette di aver pensato alla scelta di Beppino Englaro e a Eluana.

“Certo che ho pensato tante volte a Eluana, ma non ho mai pensato di giudicare la scelta di un altro padre, di altri genitori. Ho rispetto per tutti, ogni storia è diversa. So che noi abbiamo sempre pensato che fosse questa la cosa giusta. Ma per noi”.

Hector e sua moglie erano consapevoli che le condizioni del figlio non sarebbero migliorate, ma non hanno mai pensato di sospendere le cure e lasciarlo morire.

“Non l’ho mai sperato, mai. Ma sapevo che era il corso naturale delle cose, che poteva accadere. Ed è successo all’improvviso, quando non ce lo aspettavamo”.

Hector e sua moglie stavano per firmare un contratto di assistenza per Cito, affinché qualcuno si occupasse di lui quando loro fossero venuti meno.

Rita Formisano, direttore dell’Unità post-coma e Neuroabilitazione della Fondazione Santa Lucia di Roma e socia fondatrice dell’associazione “Arco 92” ha commentato così  su Ansa: “in Italia sono centinaia, anzi migliaia le famiglie che assistono disabili gravi. Negli ultimi 30 anni il tasso di sopravvivenza in fase acuta è aumentato, ma la comunità non si fa carico di chi, soprattutto pazienti giovani, sopravvive in stato vegetativo. E’ piuttosto un sottobosco di familiari-eroi, spesso isolati tra le mura domestiche, ad assicurare l’assistenza delle cronicità più gravi che sono ormai una normalità da gestire. Non un accanimento terapeutico”.

Unimamme, cosa ne pensate di queste dichiarazioni e della vicenda riportata su Repubblica?

Maria Sole Bosaia

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