E’ morto Piero Terracina, il bambino sopravvissuto di Auschwitz: aveva 91 anni.
A 10 anni il primo ricordo doloroso: “Una mattina andai a scuola come tutti gli altri giorni, tranquillo. La maestra a cui volevo bene e che mi voleva bene mi disse di non entrare. “Terracina tu resti fuori”. Chiesi perché. “Sei ebreo”” ha raccontato Piero Terracina . Da quel momento è iniziato l’inferno per lui, per la sua famiglia e per migliaia di ebrei italiani.
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Piero Terracina è nato a Roma il 12 novembre 1928 ed è morto a Roma l’8 dicembre di quest’anno. Quasi un secolo, 91 anni di memoria che non devono andare persi. Aveva due fratelli, Leo e Cesare e una sorella, Anna. Lui era il più piccolo di casa. Viveva con la sua famiglia in piazza Ippolito Nievo, a Trastevere, e dopo l’espulsione dalla scuola pubblica a seguito dell’emanazione delle leggi razziali riuscì a scampare ai vari rastrellamenti delle SS vivendo in clandestinità. Fino al 7 aprile 1944, giorno in cui la sua famiglia viene arrestata perché un conoscente li ha venduti per 5000 lire, denunciandoli. Piero viene deportato all’età di 15 anni ad Auschwitz assieme ai genitori, Lidia e Giovanni, ai fratelli, allo zio Amedeo e al nonno Leone. Fu l’unico della famiglia a sopravvivere e a fare ritorno in Italia.
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Per anni Piero non ha raccontato ciò che ha vissuto, poi in seguito alla profanazione di un cimitero ebraico negli anni 80, ha deciso di iniziare e non si è più fermato. In tanti hanno fatto così.
Piero ha raccontato la sua esperienza di deportazione sempre in modo pacato e con toni assolutamente lontani dalla rabbia e dall’odio. E’ riuscito a trasmettere l’orrore di quei giorni senza essere mai sopra le righe. Ecco come ricordava la sera della cattura: “ci fecero salire su un’ambulanza con due tedeschi a bordo. Non vi preoccupate, ci dissero i fascisti che avevano seguito mia sorella per stanarci -basta che ci diciate dove avete nascosto i gioielli. Ma noi non avevamo più nulla“. Ed aggiunge : “Ragazzi, qualsiasi cosa succeda, siate uomini, ci disse mio padre faccia al muro, nel carcere. Dignità soprattutto“. Raccontava anche come in quell’inferno la prima morte che vide fu un’esecuzione nei confronti di un deportato che conosceva: “I prigionieri non lavoravano, ma imparai come dovevo morire: vidi un ufficiale sparare un colpo in testa a un deportato che conoscevo. Fu la prima morte che vidi nella mia vita“.
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Terracina ha raccontato a migliaia di persone il calvario della deportazione: “Ci misero in 64 in un vagone. Fu un viaggio allucinante, tutti piangevano, i lamenti dei bambini si sentivano da fuori, ma nelle stazioni nessuno poteva intervenire, sarebbe bastato uno sguardo di pietà. Le SS sorvegliavano il convoglio. Viaggiavamo nei nostri escrementi: Fossoli, Monaco di Baviera, Birkenau-Auschwitz“. E ancora: “Arrivammo dentro il campo di concentramento, dalle fessure vedevamo le SS con i bastoni e i cani. Scendemmo, ci picchiarono, ci divisero. Formammo due file, andai alla ricerca dei miei fratelli, di mia madre, noi non capivamo, lei sì: mi benedì alla maniera ebraica, mi abbracciò e disse “andate”. Non l’ho più rivista. Mio padre, intanto, andava verso la camera a gas con mio nonno. Si girava, mi guardava, salutava, alzava il braccio. Noi arrivammo alla “sauna”, ci spogliarono, ci tagliarono anche i capelli. E ci diedero un numero di matricola. “Dove sono i miei genitori?”, chiesi a un altro sventurato. E lui rispose: “Vedi quel fumo del camino? Sono già usciti da lì””.
Terracina ha fornito anche dettagli sulla vita nel campo: “Ad Auschwitz il prigioniero non aveva nome, gli internati non erano contati come persone ma come pezzi. Ai prigionieri veniva tolta ogni dignità. Di quelli usciti dal campo vivi, pochissimi sono riusciti a sopravvivere, e a tornare ad essere persone degne di essere chiamate tali. L’efficiente macchina bellica tedesca, non sprecava nulla. Anche dopo la morte tutto veniva usato e riciclato, la pelle, i capelli, dei prigionieri”
Finalmente il 27 gennaio del 1945 Piero viene liberato, con lui il suo amico Sami Modiano della cui esperienza vi abbiamo già parlato. “Quando siamo stati liberati, pesavo 38 chili. Io camminavo, ma erano tanti quelli che non si tenevano in piedi. Dopo un po’ crollai, dopo fui portato dai russi in un ospedale militare. In seguito fui portato nell’ospedale di Leopoli. Lì ripresi a piangere e presi coscienza di quello che era stato perpetrato da persone normali ai nostri danni. Dopo qualche tempo fui mandato in un sanatorio nel mar Nero. Lì ho ripreso ad avere amicizie, lì sono nati alcuni affetti come quell’infermiera che mi ha curato. Sono rientrato in Italia dopo un anno. Fu in Unione Sovietica che ripresi a vivere… ricordo ancora oggi la mia prima partita a pallone…”
Toccante infine la sua risposta a un ragazzo che gli scrisse un biglietto in cui gli chiedeva di perdonarlo per ciò che i fascisti avevano fatto, e il nonno era uno di loro. Ecco la sua risposta riportata dal Corriere: “L’importante è riconoscere e capire la lezione, qual è la via giusta e quale la sbagliata. Per dirla francamente non si è trattato di errori, ma di crimini. Le colpe dei nonni, però, non devono ricadere sui nipoti, come quelle dei padri sui figli“.
Care unimamme, queste ed altre esperienze sono state raccolte in alcuni libri e conservate come monito della storia che non deve ripetersi. Abbiamo una memoria e una coscienza storica: non devono riavvenire gli orrori ingiustamente vissuti per motivi razziali, religiosi o politici. Vi lasciamo invitandovi a cercare alcuni video di Piero Terracina, anche sul canale Youtube della Provincia di Roma, nei quali racconta tutta la sua storia.
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