Oleg Mandic è uno degli ultimi sopravvissuti ad Auschwitz, l’ultimo bambino uscito vivo da lì.
Oleg Mandic oggi è un uomo di 83 anni, ma quando era bambino è stato internato ad Auschwitz insieme alla mamma Névenka e alla nonna Olga.
Oleg arrivò nel tristemente nel noto campo di concentramento insieme alla madre Névenka e alla nonna Olga nell’estate del 1944. Lì gli venne subito tatuato un numero: 189488 e venne indicato come prigioniero politico, anche se aveva solo 11 anni. Il padre e il nonno infatti si erano uniti ai partigiani jugoslavi. Quando il campo venne liberato, nel 1945 racconta che: “I russi volevano portarci a Mosca, ma non c’erano voli. Evacuarono tutti dal lager, rimanemmo soltanto noi”. Così Oleg è diventato l’ultimo bambino uscito vivo da Auschwitz.
Da quando è in pensione, dopo essersi laureato in legge e aver avuto un figlio, Oleg dedica il suo tempo a portare in giro la sua testimonianza di sopravvissuto. La sua famiglia, di origine slava, viveva a Fiume, che all’epoca era italiana. Racconta di essere sopravvissuto “il 5 per cento per merito mio, il 15 per l’amore di mia madre, l’80 per fortuna“.
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Quando arrivò nel campo di sterminio venne lasciato nel reparto femminile, anche se aveva più di 10 anni e non avrebbe potuto. Quando però lo scoprirono aveva la febbre e per questo lo isolarono nel reparto del terribile dottor Mengele. “In quel posto dove ogni giorno venivano uccise sistematicamente migliaia di persone, la febbre era un problema. Faceva esperimenti sui gemelli, a me non mi considerava. Anzi lì mangiavo meglio”.
Oleg è tornato per 13 volte in quel luogo di morte. La prima volta fu nel 1969. “L’anno in cui scomparve mia madre. Anche lei voleva andarci ma non fu possibile, le promisi sul letto di morte che l’avrei fatto io. Andai poco dopo. Quando arrivai stavano proiettando un filmato. Mi prese un colpo, mi alzai e gridai: “Quello sono io!”. Per tre giorni mi fecero una grande festa”. Nel documentario si vedevano i russi che comunicavano a lui e ai suoi parenti di poter tornare a casa.
In 5 occasioni è tornato lì in momenti di crisi, si legge su Il Corriere. “Nei momenti di difficoltà prendo l’auto, faccio il pieno e parto. Arrivo alle 7 di sera, quando i visitatori sono andati via, mostro il numero al braccio, il mio pass, entro, vado sulla rampa di Birkenau e sto seduto sui binari. Molto è cambiato, ma c’è ancora un albero come allora. Fa parte della mia vita, il punto d’incontro con il mio passato, con il mio destino, poter stare con le anime di chi non ce l’ha fatta».
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Come accennavamo per lui la sua attività di testimonianza è molto importante. «I ragazzi sono i più importanti, sono loro che dovranno ricordare quando noi non ci saremo più”. Oleg infatti è preoccupato per l’ondata di indifferenza verso gli atti di antisemitismo “a chi tace in questi momenti dico: guai a stare zitto, dovresti ricordarti che negli anni Trenta, quando vennero a prenderti, non c’era nessuno a difenderti perché quando presero gli altri tu tacevi». Ogni volta che va in visita al campo di concentramento porta a casa una pietra che usa come fermacarte. Il suo passato però è sempre presente “A 12 anni avevo visto il male assoluto. Quello che mi aspettava da quel momento sarebbe stato un valzer. Grazie ad Auschwitz la mia vita è stata bellissima”.
Unimamme, questa è una storia davvero molto toccante. Ne parlerete ai vostri figli?
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