La senatrice a vita Liliana Segre, superstite dell’Olocausto e sopravvissuta al campo di concentramento di Auschwitz, ha tenuto la sua ultima commovente testimonianza per i ragazzi delle scuole.
Liliana Segre, che ha compiuto 90 anni lo scorso 10 settembre, già da qualche tempo aveva annunciato che avrebbe interrotto gli incontri nelle scuole, a causa dell’età avanzata e del bisogno di occuparsi di più di sé e della propria famiglia. A inizio anno avrebbe dovuto tenere gli ultimi suoi incontri pubblici con i ragazzi ma i suoi programmi stati stravolti dalla pandemia di Covid-19.
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Oggi ad Arezzo, nella tensostruttura allestita alla Cittadella della Pace di Rondine, la senatrice Segre ha tenuto la sua ultima testimonianza pubblica per i ragazzi delle scuole italiane e i giovani del mondo.
Nella sua ultima testimonianza ai ragazzi, Liliana Segre ha raccontato la sua esperienza di bambina ebrea discriminata dalle leggi razziali introdotte in Italia nel 1938. All’età di 8 anni fu espulsa dalla scuola senza capire il motivo.
“Un giorno di settembre del 1938 sono diventata l’altra – ha detto Liliana Segre -. So che quando le mie amiche parlano di me aggiungono sempre la mia amica ebrea. E quel giorno a 8 anni non sono più potuta andare a scuola. Ero a tavola con mio papà e i nonni e mi dissero che ero stata espulsa. Chiesi perché, ricordo gli sguardi dei miei, mi risposero perché siamo ebrei, ci sono delle nuove leggi e gli ebrei non possono fare più una serie di cose. Se qualcuno legge a fondo le leggi razziali fasciste una delle cose più crudeli è stato far sentire invisibili i bambini. Molti miei compagni non si accorsero che il mio banco era vuoto…”
Dopo l’espulsione da scuola e le discriminazioni, nel 1943 cominciarono le deportazioni degli ebrei dall’Italia, verso i campi di concentramento. Segre ha continuato il suo racconto: “Entrai da sola a 13 anni nel carcere femminile di Varese. E poi il carcere di Como e poi il carcere di San Vittore a Milano, dopo fui ancora con mio papà per 40 giorni. Io abbracciavo mio padre. Non pensate che i genitori siano sempre fortissimi. Non dovete pensare che ai genitori si possa chiedere tutto. E non siate avari di un abbraccio in più. Io ho provato che desideravo proteggere il mio papà. Sapevo che lui era delicato e sensibile. Quest’uomo aveva 43 anni e vedeva la tragedia di un padre che non aveva saputo, potuto portare in salvo il suo tesoro. Lo dovevo consolare quando tornava dagli interrogatori. Lui tornava ed era mio figlio, non era più lui il mio papà…”
Liliana Segre ha ricordato con dolore l’indifferenza dei milanesi quando lei, il padre ed altri deportati ebrei furono caricati sui camion a calci e pugni. Ma ha anche raccontato la solidarietà dei detenuti quando all’uscita dal carcere di San Vittore lanciarono mele, arance e sciarpe ai deportati, più di 600 in fila, gridando loro: “Non avete fatto niente di male”.
“Arrivati alla Stazione Centrale nei luoghi del Binario 21 – ha continuato Segre – fummo caricati con estrema violenza sui vagoni. E non erano solo nazisti, anzi erano aiutati da zelanti fascisti. Persone che non avevano pietà. Stipati nei vagoni con un po’ di paglia e un secchio. C’era solo la vicinanza con quelli che amavi. Il viaggio durava una settimana circa. Prima si pianse e poi il pianto si tacque, ci furono le preghiere e poi il silenzio. Quando si è vicini alla morte non ci deve essere rumore. Un silenzio che valeva più di mille parole, un silenzio in cui valeva solo la propria interiorità”.
Quando Liliana Segre e suo padre, insieme agli altri deportati, arrivarono al campo di concentramento di Auschwitz “divisero gli uomini dalle donne e io guardai mio papà. E fu il momento del tribunale con un credo razzista, con un credo di odio sopra l’altro, colpevole di essere l’altro, in cui tu si tu no si veniva scelti, per la vita o per la morte. Io lasciata su quella banchina. E per la sorte, a 13 anni ero una ragazzona e fui scelta con altre trenta ragazze ebree. Tutte gli altri andarono al gas. Io vedevo lontano mio papà, cercavo di fargli piccoli saluti e poi non lo vidi più. Io non capivo. Andavo dietro a queste altre trenta, ero la più giovane. Cos’è questo posto? Una distesa di baracche, la neve per terra, decine di donne rasate, scheletrite, che scavano buche, che portano pietre sulle spalle… Entrando lì pensai di essere impazzita”.
“Avevano organizzato per ‘l’altro’ questa realtà, erano anni che funzionava perfettamente – ha continuato Liliana Segre -. Entrammo nella prima baracca e lì cominciammo a capire che dovevamo dimenticare il nostro nome. 75190 il numero tatuato da imparare subito per rispondere immediatamente al comando. Ci fu chi morì perché non seppe obbedire e rispondere al richiamo del proprio numero. E poi spogliate, rasate, vestite mentre passavano i soldati che sghignazzavano e ci guardavano. Ci tolsero tutto. Rivestite con le divise a righe, zoccoli nei piedi e fazzoletti in testa. Non conoscevo nessuno delle altre trenta ma immediatamente abbiamo iniziato a conoscerci. Erano ragazze italiane. Nessuna aveva capito cos’era in fondo quell’edificio con la ciminiera. Poi le prime prigioniere trovate, ragazze francesi, ci hanno spiegato che quelle che non lavoravano andavano prima al gas e poi nel forno. Per noi però non era normale credere di essere arrivate in un posto così”.
“Cominciò così la vita della prigioniera schiava. Non ho mai voluto raccontare molti dettagli della prigionia. Chi vuole può leggere i dettagli di quello che succedeva nei campi della morte. Solo una cosa racconto: è difficile formare delle amicizie perché la paura di ognuno di morire fa sì che pian piano diventi disumana, egoista. Non puoi essere generosa con una coperta che copre 5 persone. Io dopo il distacco dalla mano di mio padre, non cercavo le amicizie per il terrore di diventare amica di qualcuno e poi perderlo. Cercavo la solitudine, perché avevo paura di perdere ancora”, fu la terribile reazione di sopravvivenza.
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La notte, ha detto Segre, “dormivamo per la stanchezza. E poi perché non volevamo sentire i rumori del lager di notte, i pianti di quelli che andavano al gas. Arrivavano dall’Ungheria famiglie intere che andavano direttamente al gas. E si perdevano i bambini, le mamme li cercavano. Noi non volevamo sentire. Giorno dopo giorno diventavamo più egoiste, io non guardavo i mucchi di cadaveri pronti per essere bruciati, non volevo guardare le compagne messe in punizione. Ero lì non più donna, senza le mestruazioni, senza il seno, spesso senza le mutande. E non ho paura di dire queste parole, perché quando a una donna si toglie la dignità, l’umanità stessa alle persone, bisogna astrarsi, bisogna togliersi da lì con il pensiero… bisognava scegliere la vita. Lo dico sempre ai ragazzi. Tre volte passai le selezioni. Cos’è la selezione? Le capò ci facevano uscire a gruppi e ci portavano alle docce e lì nude, con il corpo diventato orribile, venivamo guardate per capire se potevamo ancora lavorare da un piccolo tribunale composto da 2 militari e il dottor Mengele, e poi c’era quel gesto fantastico che il giudice infernale faceva sì con la testa”.
Liliana Segre ha anche parlato dell’episodio dell’amica Janine che l’ha segnata per tutta la vita: “Lavoravo alla macchina, ero l’inserviente, portavo dei cesti con dei pesi di materiale, e la mia referente da cui andavo era una ragazza francese più grande di me, Janine, molto graziosa, un giorno la macchina le tagliò due falangi della mano e quando fummo chiamate alla selezione quel giorno, lei terrorizzata trovò uno straccio e coprì quelle sue dita. Io ero passata e lei era dietro di me. Sentì che la fermarono, doveva andare al gas. E io che ero appena passata fui orribile, non mi voltai, a dirle anche solo il suo nome… E non c’è stato mai più un tempo in cui non mi sono ricordata di Janine. Janine è una figura centrale perché il suo non diventare vecchia, non diventare mamma, non diventare nonna, è legato al mio non essere, all’aver perso ogni dignità. Ero solo quella prigioniera che si era salvata e non le importava di nient’altro”.
Poco prima della liberazione del campo di concentramento di Auschwitz da parte dell’Armata Rossa, nel gennaio del 1945, Liliana Segre ha raccontato la sua “marcia della morte“, quando i nazisti decisero di trasferire nell’interno della Germania i prigionieri del campo, stremati dalla fame, dal freddo e dagli stenti. “Camminammo per mesi per centinaia di km. Si doveva camminare, lo dico ai ragazzi: non date la colpa a qualcun altro della vostra debolezza. Siamo fortissimi. Gli adolescenti non sono più bambini e non sono ancora adulti, sono fortissimi. La vita può essere una marcia molto difficile. Una gamba davanti all’altra. Chi cadeva veniva fucilato. Era una fatica terribile. Eravamo orribili. Io dico ai ragazzi: non solo una gamba davanti all’altra, ma in un tempo in un 1 miliardo e mezzo di persone ha fame e vuole venire in un mondo occidentale pazzo, non buttate via mai niente, non buttate cibo. Voi ragazze non scegliete quello che vi piace, ma quello che sta per scadere. Non chiedete: voglio quello, voglio questo. Ma com’è la fame? Come fa un essere umano a brucare. In tedesco si dice fressen, per gli animali. Noi eravamo così. Durante la marcia abbiamo incontrato un cavallo morto, e io mangiai la carne cruda del cavallo. Era orribile vederci. Eravamo peggio noi del cavallo. Eravamo morte dentro ma volevamo vivere. La marcia della morte ci ha fatto incontrare letamai o cavalli morti, ma nessuno ha aperto una finestra nei paesi e nelle città che abbiamo attraversato”.
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La senatrice ha anche raccontato dell’episodio in cui ebbe la possibilità di sparare a un nazista ma non lo fece: “Mi camminava vicino il comandante di quell’ultimo campo. Aveva un nerbo di bue con sé e distribuiva in giro queste nerbate. Era un uomo alto, elegante. Si mise in mutande. Era il primo di maggio… buttò via la divisa, la pistola. Io non ero quella che sono oggi, io mi ero nutrita di odio e di vendetta. Lasciando la mano sacra di mio padre, giorno dopo giorno ero diventata un’altra, quella che loro volevano che io diventassi. Un essere insensibile. Pensai, adesso raccolgo questa pistola e gli sparo. Mi sembrava un giusto finale. Fu un attimo, decisivo nella mia vita perché capii che mai per nessun motivo al mondo io avrei potuto uccidere qualcuno, che io non ero come il mio assassino. Non raccolsi quella pistola e da quel momento sono diventata quella donna libera e quella donna di pace con cui ho convissuto fino ad adesso”.
“Non ho mai perdonato, non è possibile, e non ho dimenticato, certe cose non sono mai riuscita a perdonarle”, ha dettola senatrice, spiegando che questa è una delle domande che le vengono fatte più spesso dagli studenti. “Ma ho imparato a non odiare“, ha aggiunto.
Nell’incontro ad Arezzo, Liliana Segre ha rivolto delle parole ai giovani che la ascoltavano: “Da nonna sono i ragazzi che ringrazio. Tutti quei miei nipoti ideali visto che nel mio racconto c’è la pena, l’amore, la pietà, il ricordo struggente di quella che ero io. Di quella che ero io ragazzina e di cui oggi sono la nonna. La nonna incredula e incapace di stare così vicino, senza lacrime ormai da tanti anni, a quella ragazzina che ero io”.
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Che ne pensate unimamme di questa testimonianza?
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